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ULTIM'ORA: TAR LAZIO SOLLEVA DI NUOVO LA QUESTIONE LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE ART.42-BIS!!! ANCORA UNA VOLTA!!! IN ATTESA DEL 10 MARZO

Pubblico
Lunedì, 2 Marzo, 2015 - 01:00

IL PROSSIMO 10 MARZO 2015 LA CORTE COSTITUZIONALE SARA' CHIAMATA A PRONUNCIARSI SULLA LEGITTIMITA' DELL'ART. 42-BIS E CON LA ORDINANZA, DI SEGUITO RIPORTATA, IL TAR LAZIO ANCORA SOLLEVA LA QUESTIONE DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE DELLA NORMA!!! SIAMO IN ATTESA DEL VERDETTO FINALE!!!!

 

NUOVA RIMESSIONE ALLA CORTE COSTITUZIONALE DEL 42-BIS TUE 
 
N. 03420/2015 REG.PROV.COLL.
N. 01997/2012 REG.RIC.           
 
REPUBBLICA ITALIANA
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
ORDINANZA
sul ricorso numero di registro generale 1997 del 2012, proposto da:
 
Lucarini Giuseppe, Pitorri Roberto e Giuliani Marcello, in proprio e in forza di procura speciale per conto dei signori Giuliani Giuliano, Giuliani Concetta, Giuliani Gabriella, Lucarini Concetta, Lucarini Maria, Catalfano Antonino, Catalfano Lorena, Catalfano Claudia, Pitorri Gabriella, Cianciosi Anna Maria, Cianciosi Giuseppe, Cainciosi Assunta, Cilli Enrico, Cilli Danilo, De Amgelis Giovanni, De Angelis Cristiano, De Angelis Daniela, De Angelis Patrizia, De Angelis Domenico, De Angelis Stefania, Tamburini Attilio, Tamburini Alessandro, Bencivenga Alvaro, Bencivenghi Mario, Camilloni Silvana, Camilloni Vittorio, Camilloni Remo, Camilloni Danilo, Benvivenghi Bruno, Bencivenghi Renato, Angeloni Luisa, Angeloni Anna, Del Bianco Lidia e Giuliani Silvana, tutti rappresentati e difesi dall'avv. Alessia Guerra, con domicilio eletto presso lo studio della stessa, in Roma, Via Kenia n. 16;
 
contro
Roma Capitale, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dagli avv. Umberto Garofoli e Americo Ceccarelli, elettivamente domiciliato presso gli uffici, in Roma, Via del Tempio di Giove n. 21; 
per l'accertamento
dell’illegittima occupazione da parte del Comune di Roma dell'area di proprietà dei ricorrenti;
per la condanna
dell’amministrazione comunale alla riduzione in pristino;
nonché per il risarcimento
dei danni conseguenti all’illegittima occupazione dell'area stessa nonché per equivalente per la perdita definitiva del bene da liquidarsi secondo il valore del libero mercato ad oggi, previo esperimento della consulenza tecnica d'ufficio per determinare il valore di mercato da attribuire all'area;
 
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 19 novembre 2014 la dott.ssa Maria Cristina Quiligotti e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
 
1 - I ricorrenti deducono in punto di fatto che:
- sono ancora attualmente proprietari, tra le altre, di un'area identificata al Catasto, al foglio 468, particelle n.ro 1/R (mq. 2547), 54/R (mq. 272), 2/R (mq. 958) e 3/R (mq. 170), per un totale di mq. 3.917, sita nel territorio del Comune di Roma, oggi Roma Capitale;
- che, a ridosso degli anni '80, la predetta area è stata oggetto della procedura espropriativa posta in essere dall'Amministrazione Comunale per la realizzazione della Via dei Colli Portuensi;
- con la Deliberazione del Consiglio Comunale di Roma n. 2540 del 9.11.1976 è stato approvato il progetto per la realizzazione della Via dei Colli Portuensi;
- con la Deliberazione della Giunta Municipale n. 231 del 10.1.1978 e con la Deliberazione n. 2564 del 25.5.1978 è stato promosso il procedimento di espropriazione delle aree occorrenti per la predetta opera;
- con la Deliberazione della Giunta Municipale n. 6644 dell'8.8.1980 è stato riapprovato, ai sensi della legge n. 1/1978, il progetto dei lavori di completamento della Via Portuense ed è stata disposta l'occupazione d'urgenza, ai sensi dell'articolo 20 della legge n. 865/1971, dell'area di proprietà dei ricorrenti identificata catastalmente al foglio n. 468, particelle n.ro 1/R, 54/R, 2/R e 3/R, per un totale di mq. 3.917;
- con il Verbale di Consistenza ed Immissione in possesso, di cui al prot. n. 4054 dell’8.10.1980, è stata occupata d'urgenza l'area di cui sopra in esecuzione della citata delibera G.M. n. 6644 dell'8.8.1980;
- con D.P.R.L. n. 2473 del 1981 è stata stabilita l'indennità di espropriazione per le aree occorrenti per la realizzazione dell'opera suddetta;
- i ricorrenti, con la nota di cui al prot. n. 2202 del 29.3.1982, hanno espresso la volontà di addivenire alla cessione volontaria delle predette aree;
- con la deliberazione del Consiglio Comunale n. 999 del 15.3.1984, l'amministrazione comunale ha ritenuto vantaggioso concludere l'acquisto delle aree di proprietà autorizzando l'acquisto delle stesse;
- in data 12.5.1985 sono stati ultimati i lavori di realizzazione dell'opera;
- i ricorrenti, pur avendo prodotto tutta la documentazione richiesta per addivenire alla stipulazione dell'atto pubblico di cessione dell'area de qua, non hanno ricevuto, nonostante i numerosi e reiterati solleciti, l'invito alla detta stipula e, pertanto, in data 9.6.1986, hanno formalmente dichiarato di revocare l'accettazione dell'indennità provvisoria;
- in considerazione di quanto sopra l'amministrazione comunale, con la deliberazione della Giunta Municipale n. 1240 del 18.2.1991, ha revocato parzialmente la deliberazione del Consiglio Comunale n. 999 del 15.3.1984 nella parte in cui si autorizzava l'acquisto delle predette aree, rimandando ad una futura deliberazione la riapprovazione - che non sarebbe in realtà mai avvenuta - della procedura espropriativa de qua;
- nel corso degli anni, i ricorrenti hanno più volte sollecitato l'amministrazione comunale a voler addivenire ad una soluzione della controversia in discorso e, tuttavia, nonostante tali ripetuti solleciti e i numerosi incontri, non si è mai approdati ad alcuna soluzione;
- attualmente i ricorrenti non hanno percepito alcun indennizzo o risarcimento per l'illegittimo esproprio delle aree di loro proprietà meglio sopra descritte;
- l'occupazione delle aree, avvenuta il 18.11.1980, è proseguita legittimamente solo per i 30 mesi previsti dalla delibera della Giunta Municipale n. 6644 dell'8.8.1980 con l’occupazione d'urgenza e, pertanto, fino all'8.2.1983;
- dalla predetta ultima data, quindi, le predette aree sono detenute da parte dell'amministrazione comunale senza un titolo valido, non avendo la stessa mai decretato l'esproprio delle aree in questione né potendolo più legittimamente farlo, essendo da tempo scaduti i termini di validità della dichiarazione di pubblica utilità.
Con il ricorso in trattazione - premessa la giurisdizione del giudice amministrativo adito nonché la sussistenza dell’interesse a ricorrere e ancora la non decorrenza del termine di prescrizione dell’azione risarcitoria - i ricorrenti hanno dedotto il seguente unico complesso motivo di censura:
Violazione e falsa applicazione dell'articolo 13 della legge n. 2359 del 1865, dell'articolo 20 della legge n. 865 del 1971, dell’articolo 1 della legge n. 1 del 1978, dell’articolo 42 della Costituzione nonché degli artt. 10 e 117, comma 1, della Costituzione in relazione al primo protocollo addizionale della Convenzione Europea ed eccesso di potere per violazione e falsa applicazione della deliberazione della G.M. n. 6644 dell'8.8.1980.
In particolare hanno dedotto che:
- il primo comma dell'articolo 13 della legge sulle espropriazioni per pubblica utilità del 25 giugno 1865, n. 2359, stabiliva che nell'atto che dichiarava un'opera di pubblica utilità dovevano essere indicati i termini entro i quali dovevano cominciarsi e compiersi le espropriazioni ed i lavori ed il terzo comma dello stesso articolo si stabiliva, altresì, espressamente che, trascorsi i predetti termini, la dichiarazione di pubblica utilità diveniva inefficace e l'espropriazione non poteva essere portata ad esecuzione;
- il predetto articolo 13 è stato abolito dall'articolo 13 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, recante il T.U. delle disposizioni in materia di espropriazione, che ha previsto, ma solo come facoltativa, l'indicazione del termine entro il quale deve essere emanato il decreto di esproprio ed ha stabilito che, in mancanza di detta previsione, si applica il termine massimo di cinque anni decorso il quale si determina l'inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità;
- considerato, tuttavia, che la contestata procedura ablativa si è svolta prima dell'entrata in vigore del T.U. delle espropriazioni, la legittimità dell’operato dell’amministrazione comunale deve essere verificato con riferimento esclusivo alle disposizioni contenute nell'allora vigente articolo 13 della legge n. 2359 del 1865;
- nella fattispecie la deliberazione della Giunta Municipale n. 6644 dell'8.8.1980 aveva stabilito che la procedura espropriativa doveva concludersi entro 30 mesi dalla data di esecutività della stessa e, tuttavia, alla predetta data nessun decreto di esproprio è stato messo da parte dell’amministrazione comunale;
- la dichiarazione di pubblica utilità di cui alla deliberazione della G.M. n. 6644 dell’8.8.1980 ha pertanto perduto i suoi effetti;
- l’espropriazione dell’area di cui trattasi non è più possibile a meno che si proceda all’adozione di una nuova dichiarazione di pubblica utilità;
- il termine massimo di durata dell’occupazione di urgenza, ai sensi dell’articolo 20 della legge n. 865 del 1971, è di cinque anni dalla data di immissione nel possesso e, tuttavia, nella fattispecie, la deliberazione della G.M. n. 6644 dell’8.8.1990 aveva autorizzato l’occupazione di urgenza esclusivamente per 30 mesi dalla data di esecutività della stessa;
- a fare data dall’8.2.10983, pertanto, l’amministrazione comunale occupa illegittimamente l’area di proprietà dei ricorrenti.
Roma Capitale si è costituita in giudizio in data 21.3.2012 e 18.9.2014 ed ha depositato memoria difensiva in data 7.10.2014, con la quale - dopo avere diffusamente ricostruito in punto di fatto l’intera vicenda - ha dedotto che:
- nel caso di specie, sebbene sia stato regolarmente avviato un procedimento espropriativo in base ad una valida dichiarazione di pubblica utilità dell'opera, tuttavia l'amministrazione comunale non ha provveduto ad emettere il decreto di esproprio delle aree di cui trattasi entro il 12 maggio 1985, termine massimo di compimento delle espropriazioni;
- che la domanda formulata da parte attrice è, in sostanza, quella di un risarcimento dei danni in forma specifica, consistente nella restituzione del terreno, previo risarcimento del danno da illegittima occupazione, ovvero, in caso di impossibilità di restituzione del terreno occupato, quella del risarcimento dei danni per equivalente e quella di risarcimento dei danni subiti per l'occupazione illegittima;
- quanto alla richiesta restitutoria, la giurisprudenza ha chiarito che, qualora i1 proprietario espropriato, in qualche modo, abdichi al proprio diritto di proprietà, chiedendo un risarcimento per equivalente, la restituzione del bene occupato non è più possibile, dovendosi unicamente disporre il risarcimento per equivalente;
- il diritto al risarcimento del danno per equivalente è prescritto;
- il diritto al risarcimento del danno da occupazione illegittima non è configurabile;
- nessuna pretesa è stata invece avanzata in ordine all'occupazione legittima, ferma restando al riguardo la competenza funzionale della Corte d'Appello;
- il quadro normativo di riferimento nella suddetta materia è radicalmente cambiato negli ultimi anni in quanto l'istituto dell'accessione invertita, ovvero occupazione acquisitiva, è stato duramente censurato dalla giurisprudenza della Corte Europea nonché dalla conseguente giurisprudenza nazionale nel senso di ritenere che il comportamento della pubblica amministrazione non è più idoneo a trasferire la proprietà del bene occupato, in assenza di un espresso provvedimento di acquisizione, ovvero di altro mezzo di acquisto della proprietà;
- il predetto orientamento è stato favorito anche dall'introduzione nel Testo Unico degli Espropri ad opera dell’articolo 34 del decreto legge n. 98/2011, convertito con modificazioni dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, dell'articolo 42 bis, il quale ha escluso che la proprietà possa essere perduta per effetto di una occupazione legittima seguita dalla realizzazione dell'opera pubblica ovvero per effetto di una occupazione illegittima seguita dalla richiesta di risarcimento del danno da parte del proprietario (Corte di Cassazione, Sezione I civile, n.6216 del 13. 3.2013);
- tuttavia, come evidenziato da parte della giurisprudenza, stante il tenore dell'articolo 55 dello stesso Testo Unico degli espropri, la cd. occupazione acquisitiva è possibile ed operante per le occupazioni perpetrate dall'amministrazione in data antecedente al limite temporale dell'articolo 57 del d.p.r. n. 327/01, ossia nei casi in cui la dichiarazione di pubblica utilità esista al momento di entrata in vigore del testo unico degli espropri, come nel caso di specie e ciò si riverbera sul regime della prescrizione del risarcimento del danno, in quanto, qualora si consideri l'occupazione di cui trattasi come un illecito istantaneo, si dovrà applicare la prescrizione quinquennale, a decorrere dalla commissione dell'illecito;
- a seguito del contrasto giurisprudenziale insorto in ordine al termine prescrizionale ed alla sua decorrenza, e soprattutto in considerazione delle conseguenze derivanti, la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 11684 del 15 maggio 2013, ha rimesso la relativa questione alle Sezioni Unite ai fini della risoluzione del detto contrasto giurisprudenziale e, alla presente data, non risulta che le Sezioni Unite si siano pronunciate;
- l'acquisto a titolo originario della proprietà in capo all'amministrazione sarebbe avvenuto in data 24 aprile 1984, data in cui il Comune di Roma - ora Roma Capitale -, ente espropriante, ha ultimato i lavori sulle aree di cui trattasi, con conseguente irreversibile trasformazione delle medesime;
- attesa la natura istantanea dell'illecito de qua, ogni relativa pretesa risarcitoria avrebbe dovuta essere avanzata nei cinque anni successivi al momento in cui la proprietà è passata, a titolo originario, in capo all'amministrazione, in base ai noti principi della cosiddetta occupazione acquisitiva o espropriazione di fatto con la conseguenza che il diritto dei ricorrenti a conseguire il controvalore dell'immobile perduto risulta ormai prescritto, in quanto, prima del ricorso in questione, notificato in data in data 16 febbraio 2012, gli stessi non hanno mai avanzato al riguardo alcuna richiesta risarcitoria, limitandosi soltanto a chiedere la corresponsione dell'indennità di occupazione, presentando una serie di istanze tra il 1994 e il 2006;
- inoltre, essendosi l'irreversibile trasformazione del terreno, determinante l'acquisto a titolo originario della proprietà in capo all'amministrazione, avvenuta durante il periodo di occupazione legittima delle aree interessate, pari a sessanta mesi dalla immissione nel possesso, ossia 18 novembre 1980-18 novembre 1985, non si può nemmeno configurare alcun diritto al risarcimento del danno da occupazione illegittima;
- in via subordinata, l'indennità di occupazione illegittima è da considerarsi prescritta, quanto meno per il periodo antecedente il quinquennio dalla proposizione del ricorso;
- in via subordinata, l’amministrazione potrebbe, comunque, evitare la restituzione del bene adottando un provvedimento ex articolo 42 bis del T.U. delle espropriazioni rientrando la predetta opzione nella valutazione discrezionale dell’amministrazione avente ad oggetto la scelta se procedere alla restituzione del bene, previa rimessione in pristino, o ricondurre a legittimità il proprio operato avvalendosi della norma di cui trattasi.
Con la memoria del 17.10.2014 i ricorrenti hanno controdedotto alle difese avversarie insistendo ai fini dell’accoglimento dello stesso. In particolare hanno richiamato la giurisprudenza in materia della sezione in materia di prescrizione del credito al risarcimento dei danni nelle fattispecie analoghe ed hanno dato atto che l’amministrazione è tenuta comunque a ripristinare una situazione di legalità secondo le modalità alternative previste nell’ambito dell’ordinamento.
Con atti del 19.11.2014, si sono costituiti in giudizio in sede di intervento i signori Dario Bencivenghi e Pierluigi Bencivenghi nella qualità di eredi del signor Renato Bencivenghi, i signori Bencivenghi Manolo, Alessandro e Matilde nella qualità di eredi del signor Mario Bencivenghi nonché i signori Ronzello Giuseppe e Valerio nella qualità di eredi della signora Giuliani Silvana.
Alla pubblica udienza del 19.11.2014 il ricorso è stato trattenuto per la decisione alla presenza degli avvocati delle parti come da separato verbale di causa.
2 - La vicenda cui si riferisce la controversia in esame concerne la procedura posta in essere dal Comune di Roma, originata dall’intervenuta approvazione, con la delibera della Giunta Municipale del Comune di Roma n. 6644 dell’8.8.1980, del progetto per la realizzazione di opere di viabilità con contestuale dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza ed autorizzazione all’occupazione d’urgenza, su una porzione di terreni di proprietà dei ricorrenti. Effettuata l’occupazione dei terreni, le opere sono state realizzate senza che il Comune resistente abbia portato a termine la procedura espropriativa mediante adozione di decreto di esproprio.
2.1 - In via preliminare si da atto che non può procedersi nella fattispecie all’accertamento della intervenuta abdicazione, da parte dei ricorrenti, al diritto di proprietà sulle aree interessate dalla realizzazione dell’opera pubblica. Facendo, infatti, applicazione degli ordinari principi civilistici, l'esigenza di una piena tutela del diritto di proprietà esige che l'effetto traslativo consegua a una volontà espressa ed inequivoca del proprietario interessato, da tradursi in strumenti negoziali formali e tipici (Consiglio di Stato, Sez. VI, 10 maggio 2013, n. 2559) dovendosi, comunque, tenere conto dello specifico regime giuridico degli atti inter vivos con cui si può disporre, anche attraverso l' abdicazione, del diritto di proprietà (art. 1350 n. 5 c.c. e art. 2643 n. 5 c.c.).
2.3 - La disciplina applicabile alla fattispecie in esame va individuata nell’art. 42 bis del d.P.R. n. 327 del 2001 - introdotto con l’articolo 34 del Decreto Legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito in Legge 15 luglio 2011, n. 111 (in materia di misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria) a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001 con la sentenza della Corte Costituzionale n. 293 del 2010, il quale disciplinava l’istituto dell’acquisizione sanante - con il quale è stato reintrodotto l’istituto dell’acquisizione coattiva dell’immobile del privato utilizzato dall’amministrazione per fini di interesse pubblico, prevedendo l’acquisizione al suo patrimonio indisponibile del bene del privato allorché la sua utilizzazione risponda a “scopi di interesse pubblico” nonostante difetti un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità.
Dispone, difatti, il citato articolo, che “Valutati gli interessi in conflitto, l'autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest'ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene”.
E’ stato così reintrodotto il potere discrezionale già disciplinato dall'articolo 43 del T.U. Espropriazioni per pubblica utilità dichiarato incostituzionale, potendo l'amministrazione competente, valutate le circostanze e comparati gli interessi in conflitto, decidere se restituire l'area al proprietario demolendo in tutto o in parte l'opera sostenendone le relative spese, oppure se disporne l'acquisizione, sì da evitare che venga demolito quanto altrimenti risulterebbe meritevole di essere ricostruito (Consiglio di Stato, Sez. VI, 1 dicembre 2011 n. 6351).
Posta l’applicabilità alla fattispecie in esame - in relazione all’oggetto della domanda ed ai fatti di causa - della citata norma, ritiene il Collegio che sia rilevante e non manifestamente infondata, analogamente a quanto ritenuto dalla Corte di Cassazione, Sezioni Unite, con ordinanza n. 441 del 13 gennaio 2014, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 42 bis del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, introdotto dall'art. 34, primo comma, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito in legge 15 luglio 2011, n. 111, in relazione agli artt. 3, 24, 42, 97 e 117 Cost., anche alla luce dell'art. 6 e dell'art. 1 del I Protocollo Addizionale della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali, in quanto la disposizione citata, reintroducendo una sorta di procedimento ablativo semplificato in favore della P.A. che utilizzi senza titolo un bene privato per scopi di interesse pubblico, si pone in contrasto con il principio costituzionale di eguaglianza e di ragionevolezza intrinseca, con la garanzia della proprietà privata, posta altresì da vincoli derivanti da obblighi internazionali, con il principio di legalità dell'azione amministrativa, riservando all'Amministrazione, intesa come soggetto autore di un fatto illecito e non quale espressione della funzione amministrativa, un ingiustificato trattamento privilegiato, tale da consentirle l'acquisizione del bene al patrimonio pubblico per effetto di un suo comportamento "contra ius", di cui si avvantaggia pure nella determinazione dell'indennizzo o risarcimento dovuto al proprietario rispetto al ristoro altrimenti spettante nel caso di legittimo procedimento espropriativo.
2.3.1 - Quanto al profilo inerente la rilevanza della questione, la stessa va ravvisata nella applicabilità di tale norma alla fattispecie in esame, sulla cui base devono essere decise le questioni proposte da parte ricorrente.
Nell’attuale quadro normativo, come delineato dall’art. 42 bis del d.P.R. n. 327 del 2001, grava sull’amministrazione che ha modificato un bene immobile del privato in assenza di un valido ed efficace titolo di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità dell’opera realizzata l’obbligo giuridico di far venire meno l’occupazione sine titulo e di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto o attraverso la restituzione dei beni ai titolari, con demolizione di quanto realizzato e relativa riduzione in pristino (affrontando le relative spese), ovvero attivandosi perché vi sia un titolo d’acquisto dell’area da parte del soggetto attuale possessore evitando che sia demolito quanto dovrebbe essere ricostruito, potendo il provvedimento di acquisizione essere adottato solo sulla base di una determinazione dell’amministrazione, anche in corso di giudizio, essendo il potere acquisitivo dell’amministrazione esercitabile anche in presenza di una pronunzia giurisdizionale passata in giudicato che abbia annullato il provvedimento che costituiva titolo per l’utilizzazione dell’immobile da parte della stessa Amministrazione, atteso che il giudicato è intervenuto sull’atto annullato e non sul rapporto tra privato ed Amministrazione.
Viene in tal modo riconosciuta all’Amministrazione la possibilità di adottare un nuovo atto finchè perdura lo stato di utilizzazione, pur se illegittima, del bene del privato, atto che non opera con efficacia retroattiva e non ha una funzione sanante del provvedimento annullato, dovendo la P.A. adottare tutte le iniziative necessarie per porre fine alla perdurante situazione di illiceità, restituendo il bene al privato solo quando siano cessate le ragioni di pubblico interesse che avevano comportato l’utilizzazione del suolo o, in caso contrario, acquisire al suo patrimonio indisponibile il bene su cui insiste o dovrà essere realizzata l’opera pubblica o di pubblico interesse.
Il potere discrezionale dell’Amministrazione di disporre l’acquisizione sanante è in tal modo conservato (Cons. Stato, Sez. IV, 16 marzo 2012, n.1514).
Alla stregua dell’attuale quadro normativo, quindi, la realizzazione dell’opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato è in sé un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell’acquisto, come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, per cui solo il formale atto di acquisizione dell’Amministrazione può essere in grado di limitare il diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi (rinunziativi o abdicativi) della proprietà in altri comportamenti, fatti o contegni (Consiglio di Stato, Sez. IV, 3 ottobre 2012 n. 5198; TAR Lazio, Roma, 6 novembre 2012 n. 9052).
Ne discende che, laddove l’Amministrazione non intenda comunque apprendere il bene tramite l’acquisizione del consenso della controparte o l’adozione di un provvedimento autoritativo, è suo obbligo primario procedere alla restituzione della proprietà illegittimamente detenuta, a meno di non apprendere legittimamente il bene facendo uso unicamente dei due strumenti tipici, ossia il contratto, tramite l’acquisizione del consenso della controparte, o il provvedimento, e quindi anche in assenza di consenso ma tramite la riedizione del procedimento con le sue garanzie.
L’illecita occupazione, e quindi il fatto lesivo, permangono pertanto fino al momento della realizzazione di una delle due fattispecie legalmente idonee all’acquisto della proprietà, indifferentemente dal fatto che questo evento avvenga consensualmente o autoritativamente.
Ed invero, con la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 43 del Testo unico sulle espropriazioni di cui alla sentenza della Corte Costituzionale n. 293 del 2010, con espunzione dal nostro ordinamento dell’istituto dell’acquisizione de facto della proprietà in mano pubblica a seguito della realizzazione dell’opera, l’esecuzione dell’opera pubblica non costituisce impedimento alla restituzione dell’area illegittimamente occupata e ciò indipendentemente dalle modalità - occupazione acquisitiva o usurpativa - di acquisizione del terreno (in tal senso anche Cons. Stato, Sez. V, 2 novembre 2011, n. 5844).
Applicando le indicate coordinate interpretative dell’art. 42-bis del D.P.R. n. 327 del 2001 alla fattispecie in esame, caratterizzata dall’intervenuta realizzazione di un’opera pubblica su aree di proprietà dei ricorrenti in assenza di un valido titolo ablatorio, con conseguente illegittimità dell’occupazione, va dunque escluso che si sia determinato un acquisto a titolo originario delle aree da parte dell’Amministrazione in virtù della radicale e definitiva trasformazione del suolo, conseguente alla sua occupazione ed alla realizzazione dell’opera pubblica, non essendosi conseguentemente estinto il diritto di proprietà del suolo in capo alla ricorrente.
Tenuto conto, inoltre, che l’art. 42-bis del D.P.R. n. 327 del 2000 affida all’Autorità amministrativa la scelta di determinarsi in ordine all’eventuale acquisizione delle aree irreversibilmente trasformate, ne discende l’impossibilità per il Giudice di sostituirsi all’Amministrazione nella previa valutazione dei contrapposti interessi, con conseguente preclusione alla possibilità di ordinare un facere alla Pubblica Amministrazione, nella specie di ordine di procedere all’adozione di un provvedimento di acquisto ex nunc della proprietà delle aree trasformate dalla realizzazione dell’opera pubblica.
Non vi è spazio, difatti, nell’ordinamento, per configurare un modo di acquisto della proprietà da parte dell’Amministrazione attraverso un ordine del Giudice, non prevedendo il citato art. 42-bis che il proprietario danneggiato dall’occupazione illegittima possa richiedere al giudice amministrativo di ordinare all’Amministrazione di attivare il procedimento espropriativo e non rientrando la fattispecie di cui al predetto art. 42-bis tra quelle indicate dall’art. 134 cod. proc. amm., in relazione alle quali l’art. 7, comma 6, cod. proc. amm. prevede che il giudice amministrativo possa sostituirsi all’Amministrazione.
Ricadendo, quindi, la fattispecie in esame, nell’ambito di applicazione del citato art. 42-bis, il Collegio, facendo applicazione dello stesso, dovrebbe limitarsi a ordinare alla resistente Amministrazione Comunale di procedere alla restituzione alla società ricorrente delle aree illegittimamente occupate, previa riduzione in pristino, e a risarcire il danno per l'occupazione illegittima, fermo restando che l’Amministrazione può paralizzare tale pronucnia mediante l’adozione del provvedimento con cui disporre l’acquisto ex nunc del bene al suo patrimonio indisponibile, con corresponsione al proprietario di un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale subito, spettando in via esclusiva all’Amministrazione che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, procedere alla valutazione degli interessi in conflitto al fine di disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile, non potendo il Giudice sostituirsi all’Amministrazione comunale nelle valutazioni alla stessa spettanti in merito alla sussistenza dei presupposti (e, in particolare, del persistente interesse pubblico alla fruizione, da parte della collettività, dell’opera pubblica realizzata) per procedere all’acquisizione, consensuale o coattiva, dei beni con il consenso della controparte o facendo ricorso alla procedura di cui all’art. 42-bis del D.P.R. n. 327 del 2001.
Alla società ricorrente andrebbe, inoltre, riconosciuto, oltre al diritto alla restituzione delle aree illegittimamente occupate, il diritto ad ottenere il risarcimento dei danni medio tempore subìti, a vario titolo derivanti dalla perdurante abusiva occupazione delle aree di sua proprietà, nonchè il diritto, in caso di acquisizione delle aree, ad ottenere la corresponsione del valore venale delle stesse, per come previsto dalla citata norma.
2.3.2 - Dato conto, sulla base di quando dianzi illustrato, della rilevanza della questione di illegittimità costituzionale dell’art. 42 bis del d.P.R. n. 327 del 2001 ai fini della decisione della controversia in esame, dovendo la decisione in ordine alla stessa fare applicazione della citata norma, occorre procedere alla enucleazioni delle ragioni per cui tale norma viene sospettata di contrasto con i parametri costituzionali.
L'art. 42-bis ("Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico") del D.P.R. n. 327 del 2001 – introdotto con l’art. 34 del Decreto Legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito in Legge 15 luglio 2011, n. 111 (in materia di misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria), dispone, per come dianzi illustrato, che "Valutati gli interessi in conflitto, l'autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest'ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene (comma 1). Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche quando sia stato annullato l'atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un'opera o il decreto di esproprio..." (comma 2).
E' stata in tal modo reintrodotta, secondo la più qualificata dottrina e la giurisprudenza amministrativa, la possibilità per l'Amministrazione che utilizza un bene privato senza titolo per scopi di interesse pubblico, di evitarne la restituzione al proprietario (e/o la riduzione in pristino stato) attraverso il ricorso ad un atto di acquisizione coattiva al proprio patrimonio indisponibile, che sostituisce il procedimento ablativo prefigurato dal T.U., e si pone, a sua volta, come una sorta di procedimento espropriativo semplificato. Il quale assorbe in sè sia la dichiarazione di pubblica utilità, che il decreto di esproprio, e quindi sintetizza "uno actu" lo svolgimento dell'intero procedimento, in presenza dei presupposti indicati dalla norma.
La nuova soluzione è apparsa al legislatore indispensabile, anzitutto per "eliminare la figura sorta nella prassi giurisprudenziale della occupazione appropriativa ...nonchè quella dell'occupazione usurpativa.." (Cons. St. Ad. gen. 4/2001), e quindi al fine di adeguare l'ordinamento "ai principi costituzionali ed a quelli generali di diritto internazionale sulla tutela della proprietà".
Ed infatti, in forza di detto provvedimento cessa l’occupazione sine titulo, e nel contempo la situazione di fatto viene adeguata a quella di diritto con l'attribuzione (questa volta) formale della proprietà alla p.a. (se prevale l'interesse pubblico), cui è consentita una legale via di uscita dalle numerose situazioni di illegalità realizzate nel corso degli anni.
Viene in tal modo consentito il ripristino della legalità anche con riferimento alle situazioni già verificatesi, per le quali permane egualmente la necessità di regolarizzazione definitiva.
L'art. 42-bis ha riproposto in sostanza l'applicazione estensiva dell'istituto peculiare del precedente art. 43, di cui ha ereditato perfino la rubrica, rivolgendola in diverse direzioni, in quanto: 1) ha superato la norma transitoria dell'art. 57 con l'introduzione del comma 8, per il quale "Le disposizioni del presente articolo trovano altresì applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato"; 2) ha confermato, malgrado la critica sul punto della Corte Costituzionale, l'estensione del potere di acquisizione alle servitù di fatto (comma 7), in passato escluse dall'occupazione espropriativa (perchè ne difetta la non emendabile trasformazione del suolo in una componente essenziale dell'opera pubblica); 3) non richiede più che l'immobile realizzando rientri in una delle categorie individuate dagli artt. 822 ed 826 cod. civ. (postulate dall'occupazione appropriativa).
E’ stato, anzi, rescisso perfino il collegamento con l'area delle espropriazioni per p.u., prevedendosi l'applicazione dell'istituto anche nell'ipotesi in cui sia stato annullato l'atto da cui è sorto il vincolo preordinato all'esproprio: in base alla mera utilizzazione dell'immobile per scopi di interesse pubblico, che ne abbia provocato una qualche modifica, pur quando "attribuito...in uso speciale a soggetti privati (comma 5); 4) ha conclusivamente invertito il principio tratto dall'art. 42 Cost. ed art. 834 cod. civ. che la potestà ablativa ha carattere eccezionale che non può essere esercitata se non nei casi in cui sia la legge a prevederla (L. n. 2359 del 1865 per la realizzazione di opere pubbliche, L. n. 1089 del 1939 per i beni storici, artistici; D.Lgs. n. 215 del 1933 per finalità di bonifica; D.Lgs. n. 3267 del 1923 per fini di protezione idro-geologica ecc). In quanto l'acquisizione è predisposta in via generale ed indeterminata per qualsiasi "utilizzazione" del bene - meramente detentiva, come preordinata all'esproprio, reversibile oppure irreversibile - in seguito alla quale il provvedimento non è tenuto ad individuarne neppure la destinazione, essendo sufficiente "l'indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio" (comma 4).
Questi caratteri dell'acquisizione, qualificabile come "sanante", sono gli stessi che hanno indotto la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 293 del 2010 ad osservare che l’istituto "prevede un generalizzato potere di sanatoria, attribuito alla stessa amministrazione che ha commesso l'illecito, (anche) a dispetto di un giudicato che dispone il ristoro in forma specifica del diritto di proprietà violato"; e che la norma, marcatamente innovativa rispetto al contesto normativo positivo, "neppure è coerente con quegli orientamenti di giurisprudenza che, in via interpretativa, erano riusciti a porre un certo rimedio ad alcune gravi patologie emerse nel corso dei procedimenti espropriativi".
Ne consegue che la sua riproduzione nell'art. 42 bis, applicabile ad ogni genere di situazione sostanziale e processuale sopra indicata, con il risultato di offrire alla P.A. una vasta ed indeterminata gamma di nuove prerogative, ripropone numerosi e gravi dubbi di costituzionalità - anche per le possibili violazioni del principio di legalità dell'azione amministrativa - in relazione ai precetti contenuti negli art. 3, 24, 42 e 97 Cost.; nonchè di compatibilità con la normativa della Convenzione CEDU, e quindi dell'art. 117 Cost.
In linea più generale, infatti, dottrina e giurisprudenza si sono chieste se alla P.A. che abbia commesso un fatto illecito, fonte per qualsiasi soggetto dell'obbligazione risarcitoria/restitutoria di cui agli art. 2043 e 2058 cod. civ., possa essere riservato un trattamento privilegiato (conforme alla normativa dell'art. 3 Cost.) ed attribuita la facoltà di mutare, successivamente all'evento dannoso prodotto nella sfera giuridica altrui, e per effetto di una propria unilaterale manifestazione di volontà, il titolo e l'ambito della responsabilità, nonchè il tipo di sanzione (da risarcimento in indennizzo) stabiliti in via generale dal precetto del "neminem laedere" per qualunque soggetto dell'ordinamento. Soprattutto al lume del principio costituzionale (ritenuto da Corte Costituzionale 204/2004 "una conquista liberale di grande importanza") che nel sistema vigente è privilegiata la tutela della funzione amministrativa e non della p.a. come soggetto.
La risposta non può che essere quella che, allorquando la stessa opera al di fuori di detta funzione, è soggetta a tutte le regole vincolanti per gli altri soggetti, nonchè esposta alle medesime responsabilità, fra cui quelle di cui alle norme codicistiche menzionate; e che vale anche per essa la regola che "factum infectum fieri nequit", costituente limite invalicabile anche per il potere di sanatoria in via amministrativa di una situazione di illegittimità. Sicchè, una volta attuata in tutti i suoi elementi costitutivi la lesione ingiusta di un diritto soggettivo, quest'ultima non può mai mutare natura e divenire "giusta" per effetto dell'azione amministrativa, cui non è consentito neppure di eliminarne "ex post" le conseguenze e le obbligazioni restitutorie e risarcitorie ad esse correlate.
Queste risposte hanno trovato piena corrispondenza nella rigorosa applicazione del principio di legalità sostanziale predicato dalla normativa dell'Unione Europea (cfr. Corte giust. UE 10 novembre 2011, 0C 405/10); nonchè nella giurisprudenza della Corte Edu (1,13 ottobre 2005, Serrao; 15 novembre 2005, La Rosa; 3, 15 dicembre 2005, Scozzari; 2, 9 gennaio 2009, Sotira; Grande Chambre, 4 gennaio 2010, Guiso) proprio in materia di ingerenza illegittima nella proprietà privata, fondata sempre e comunque sul corollario divenuto per i giudici di Strasburgo insuperabile, che alla P.A. non è consentito (nè direttamente nè indirettamente) trarre vantaggio da propri comportamenti illeciti e, più in generale, da una situazione di illegalità dalla stessa determinata . Laddove l'art. 42-bis, per il solo fatto della connotazione pubblicistica del soggetto responsabile, ha soppresso tale pregresso regime dell'occupazione abusiva di un immobile altrui, sottraendo al proprietario l'intera gamma delle azioni di cui disponeva in precedenza a tutela del diritto dominicale, e la stessa facoltà di scelta di avvalersene o meno. E,considerando esclusivamente gli scopi dell'amministrazione, l'ha trasferita dalla "vittima dell'ingerenza" (tale qualificata dalla Corte europea), all'autore del fatto illecito, attraverso la sostanziale introduzione con il semplice atto di acquisizione emesso da quest'ultimo, di un nuovo modo di acquisto della proprietà privata, che prescinde ormai dal collegamento con la realizzazione di opere pubbliche, e perfino con una pregressa procedura ablativa.
Ed infatti, l'istituto introdotto con l’art. 42-bis, riproduttivo di quello precedente, è rivolto a definire in linea generale (non più un procedimento espropriativo in itinere, bensì) "quale sorte vada riservata ad una res utilizzata e modificata dalla amministrazione, restata senza titolo nelle mani di quest'ultima" (Cons. St. Ad. Plen. 2/2005 e succ.).
Proprio per superare soluzioni analoghe, apparse non conformi al suddetto principio di legalità in ambito espropriativo, la giurisprudenza di legittimità fin dall'inizio degli anni 80 aveva riconsiderato ed espunto (Cass. 382/1978; 2931/1980; 5856/1981) la regola, fino ad allora seguita, che alla P.A. occupante (senza titolo) fosse concesso di completare la procedura ablativa in ogni tempo con la tardiva pronuncia del decreto di esproprio, perfino nel corso di un giudizio intrapreso dal proprietario per la restituzione dell'immobile; e che il solo fatto dell'adozione postuma del provvedimento ablativo - ammissibile fino alla decisione della Cassazione - comportasse la conversione automatica dell'azione restitutoria e/o risarcitoria, in opposizione alla stima dell'indennità: alla quale soltanto il proprietario finiva per avere diritto. E tale adeguamento alla normativa costituzionale non è sfuggito alla ricordata decisione n. 293 del 2010 della Consulta che lo ha contrapposto agli effetti dell'acquisizione sanante (analoghi a quelli del decreto tardivo), dando atto che da decenni "secondo la giurisprudenza di legittimità, in materia di occupazione di urgenza, la sopravvenienza di un provvedimento amministrativo non poteva avere un'efficacia sanante retroattiva, determinata da scelte discrezionali dell'ente pubblico o dai suoi poteri autoritativi".
Poste tali premesse, il dubbio di elusione delle garanzie poste dall'art. 42 Cost. a tutela della "proprietà privata" (commi 2 e 3) appare al Collegio ancor più consistente in relazione al primo e fondamentale presupposto per procedere al trasferimento coattivo di un immobile mediante espropriazione, ivi indicato nella necessaria ricorrenza di "motivi di interesse generale"; che trova puntuale riscontro in quello di eguale tenore dell'art. 1 del Protocollo 1 All. alla Convenzione EDU per cui l'ingerenza nella proprietà privata può essere attuata soltanto "per causa di pubblica utilità".
Fin dalle decisioni più lontane nel tempo la Corte Costituzionale ha affermato al riguardo (sent. 90/1966) che "Il precetto costituzionale, secondo cui una espropriazione non può essere consentita dalla legge se non per motivi di interesse generale (o per pubblica utilità), e cioè se non quando lo esigano ragioni importanti per la collettività, comporta, in primo luogo, la necessità che la legge indichi le ragioni per le quali si può far luogo all'espropriazione; e inoltre che quest'ultima non possa essere autorizzata se non nella effettiva presenza delle ragioni indicate dalla legge" ed ancora che "Nelle leggi della materia - la cui fondamentale espressione è rappresentata dalla L. 25 giugno 1865, n. 2359 - si trova infatti costantemente affermato il concetto (e anche lì dove esso non risulta espressamente enunciato, è stata la giurisprudenza a proclamare l'inderogabilità del principio) che fin dal primo atto della procedura espropriativa debbono risultare definiti non soltanto l'oggetto, ma anche le finalità, i mezzi e i tempi di essa..." Negli stessi termini tutti i successivi interventi della Consulta (sentenze. 95/1966; 384/1990; 486/1991; 155 e 188 /1995), nonchè la consolidata giurisprudenza di legittimità che fin dai primi anni 60 (Sez. un. 826/1960 e succ), ha definito la dichiarazione di p.u. "la guarentigia prima e fondamentale del cittadino e nel contempo la ragione giustificatrice del suo sacrificio nel bilanciamento degli interessi del proprietario alla restituzione dell'immobile ed in quello pubblico al mantenimento dell'opera pubblica per la funzione sociale della proprietà"; ha costantemente confermato che la suddetta garanzia costituzionale viene osservata soltanto se la causa del trasferimento è predeterminata nell'ambito di un apposito procedimento amministrativo, nel bilanciamento dell'interesse primario con gli altri interessi in gioco. Ed è rimasta sempre ancorata al principio che la mancanza della preventiva dichiarazione di pubblica utilità implica il difetto di potere dell'Amministrazione nel procedere all'espropriazione.
La norma costituzionale richiede, quindi, che i motivi d'interesse generale per giustificare l'esercizio del potere espropriativo nei (soli) casi stabiliti dalla legge, siano predeterminati dall'Amministrazione ed emergano da un apposito procedimento - individuato nel procedimento dichiarativo del pubblico interesse culminante nell'adozione della dichiarazione di pubblica utilità - preliminare, autonomo e strumentale rispetto al successivo procedimento espropriativo in senso stretto, nel quale l'Amministrazione programma un nuovo bene giuridico destinato a soddisfare uno specifico interesse pubblico, attuale e concreto. E che siano palesati gradualmente e anteriormente (allo spossessamento nonchè) al sacrificio del diritto di proprietà, in un momento in cui la comparazione tra l'interesse pubblico e l'interesse privato possa effettivamente evidenziare la scelta migliore, nel rispetto dei principi d'imparzialità e proporzionalità (art. 97 Cost.): in un momento, cioè in cui la lesione del diritto dominicale non è ancora attuale ed eventuali ipotesi alternative all'espropriazione non sono ostacolate da una situazione fattuale ormai irreversibilmente compromessa. Da qui la formula dell'art. 42, comma 3 per cui l'espropriazione in tanto è costituzionalmente legittima in quanto è originata da "motivi di interesse generale", ovvero collegata ad un procedimento amministrativo che evidenzi i motivi che giustificano una incisione nella sfera del privato proprietario, di questo valorizzando il ruolo partecipativo; e la conseguenza che tale risultato non sarebbe garantito dall'esercizio di un potere amministrativo che, sebbene presupponga astrattamente una valutazione degli interessi in conflitto, è destinato in concreto a giustificare ex post il sacrificio espropriativo unicamente in base alla situazione di fatto illegittimamente determinatasi.
La preventiva emersione dei motivi d'interesse generale non costituisce, conclusivamente, semplice regola procedimentale disponibile dal legislatore, ma specifica garanzia costituzionale strumentale alla tutela di preminenti valori giuridici: come dimostra l'imponente giurisprudenza, soprattutto amministrativa, secondo la quale la dichiarazione di pubblica utilità non è un semplice atto prodromico con l'esclusivo effetto di condizionare la legittimità del provvedimento finale d'espropriazione ed impugnabile quindi solo congiuntamente a quest'ultimo, bensì un provvedimento autonomo, idoneo a determinare immediati effetti lesivi nella sfera giuridica di terzi. I quali si riflettono necessariamente sul piano della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.), consentendo all'espropriando di partecipare alla fase antecedente alla sua adozione, e quindi di contestarlo sin dal primo momento del suo farsi, coincidente con l'emersione dei motivi d'interesse generale.
Per converso, l'art. 42 bis, prescindendo dalla dichiarazione di p.u., autorizza l'espropriazione sostanziale in assenza di una predeterminazione dei motivi d'interesse generale che dovrebbero giustificare il sacrificio del diritto di proprietà, reputando sufficiente che la perdita del bene da parte del proprietario trovi giustificazione nella situazione di fatto venutasi a creare per effetto del comportamento contra ius dell'Amministrazione, consentendone l'acquisizione anche laddove tale procedura sia stata violata o totalmente omessa, in questo modo trasformando il rispetto del procedimento tipizzato dalla legge in una mera facoltà dell'Amministrazione.
In tal modo la dichiarazione di pubblica utilità viene relegata al momento procedimentale eventuale, la cui assenza può essere superata dal provvedimento di acquisizione che ne elimina in radice la necessarietà.
Ciò in contrasto, peraltro, anche con la complessiva e rigida disciplina delle espropriazioni posta dallo stesso D.P.R. n. 327 del 2001 che nell'art. 2 ha dichiarato di ispirarsi proprio al "principio di legalità dell'azione amministrativa": dal momento che il potere sanante viene di fatto ad esautorare il significato dei doveri, obblighi e limiti che scandiscono il procedimento espropriativo. Ed in contrasto soprattutto con quella specifica del capo 3^ relativo alla "fase della dichiarazione di p.u." che ha istituito, in conformità all'art. 97 Cost. un giusto procedimento che riconosce e valorizza il ruolo partecipativo del privato proprietario (artt. 11 segg.), reso superfluo dalla contestuale introduzione di un meccanismo "semplificato", parallelo ed alternativo, rimesso a scelte insindacabili dell'Amministrazione. Alla quale in definitiva viene attribuito il potere (di volta in volta, e per ogni espropriazione), di recepire ovvero escludere le garanzie connesse al procedimento normale. Non è sostenibile, infatti, che, siccome l'adozione del provvedimento di acquisizione è subordinato ad una previa valutazione degli interessi in conflitto ed al fatto che il bene occupato sia utilizzato per scopi d'interesse generale, queste espressioni abbiano valenza complessiva di sostanziale sinonimo dei "motivi di interesse generale" di cui all'art. 42 Cost., comma 3: in quanto il riferimento normativo alla valutazione degli interessi in conflitto presuppone un apprezzamento di amplissima discrezionalità dell'Amministrazione espropriante, assolutamente privo di "elementi e criteri idonei a delimitarla chiaramente" (Corte Costituzionale 38/1966), tanto che non viene descritto alcun parametro, neppure vaghissimo, al quale una siffatta valutazione debba essere ancorata; e neppure, viene prefigurato l'ingresso nell'iter decisionale di interessi privati che tale discrezionalità possano in qualche misura indirizzare o soltanto attenuare. Mentre è lo stesso art. 42-bis ad escludere che i generici ed indeterminati scopi di interesse generale - che peraltro si limitano a riprodurre la regola per cui tutta l'attività dell'Amministrazione è istituzionalmente e necessariamente finalizzata ad interessi generali - coincidano con la causa di pubblica utilità postulata dalla Costituzione (e dalla Convenzione) per procedere all'espropriazione, ritenendo, da un lato, sufficiente per la ricorrenza dei primi che l'immobile sia occupato e utilizzato da una pubblica amministrazione: e quindi la stessa situazione di fatto venutasi a creare per effetto del comportamento contra ius di quest'ultima. E dall'altro, richiedendo che la determinazione relativa al loro accertamento, si svolga al solo fine di legittimarla ex post, peraltro attraverso passaggi conoscitivi e valutativi tutti interni all'apparato amministrativo, e perciò necessariamente soggettivi. A differenza dei "motivi di interesse generale", i quali (Corte Costituzionale 95/1966 e 155/1995) "valgono non solo ad escludere che il provvedimento ablatorio possa perseguire un interesse meramente privato, ma richiedono anche che esso miri alla soddisfazione di effettive e specifiche esigenze rilevanti per la comunità"; e la cui identificazione deve "rinvenirsi nella stessa legge che prevede la potestà ablatoria; come anche in essa può trovarsi definita soltanto la fattispecie astratta (a mezzo di clausola generale).." che ne implica poi l'individuazione in concreto nell'ambito di un procedimento normativamente predeterminato (e partecipato). Allorchè, dunque, "il programma da realizzare" sia ancora nella fase progettuale (comportante le opportune valutazioni relative a collocazione, caratteristiche tecniche, convenienza, tutela ambientale ecc), precedente alla concreta lesione del diritto dominicale (Corte Costituzionale 90/1966 citata): soltanto così potendosi garantire che il relativo sacrificio consegua il giusto equilibrio con le reali esigenze della collettività, e configurare il comportamento dell'ente espropriante come rispettoso del principio di legalità non solo formale (cfr. art. 97 Cost. ed 1 Prot. All. 1 alla CEDU).
Ma il rapporto di implicazione logica e giuridica tra la fase della dichiarazione di p.u. ed il successivo trasferimento coattivo, assolve ad una seconda e non meno rilevante funzione, risalente alla Legge fondamentale n. 2359 del 1865, art. 13; il quale, onde evitare che si protragga indefinitamente l'incertezza sulla sorte dei beni espropriandi, e nel contempo, che si eseguano opere non più rispondenti, per il decorso del tempo all'interesse generale, ha attribuito ai proprietari una ulteriore garanzia fondamentale, oggi rispondente al principio di legalità e tipicità del procedimento ablativo, disponendo nel comma 1 che nel provvedimento dichiarativo della pubblica utilità dell'opera devono essere fissati quattro termini (e cioè quelli di inizio e di compimento della espropriazione e dei lavori); e stabilendo, nel comma 3, che "trascorsi i termini, la dichiarazione di pubblica utilità diventa inefficace". Sopravvenuta la Costituzione, questa disposizione ha assunto rilevanza costituzionale, essendo stata collegata dalla Corte Costituzionale (sent. 355/1985; 257/1988; 141/1992) direttamente al principio che, siccome la proprietà privata può essere espropriata esclusivamente per motivi di interesse generale (art. 42 Cost., comma 3), tale possibilità è connaturata solo all'esigenza che l'espropriazione avvenga per esigenze effettive e specifiche: che valgano, cioè, a far considerare indispensabile e tempestivo il sacrificio della proprietà privata in quel momento; con la conseguenza che ciò non si verificherebbe ove il trasferimento coattivo di un bene avvenisse in vista di una futura, ma attualmente ipotetica utilizzazione al servizio di specifici fini di interesse generale, ma privi di attualità e di concretezza.
Da tale quadro normativo, la giurisprudenza tanto ordinaria, quanto amministrativa, ha tratto le regole, oggi ritenute assolute e non derogabili: A) che "la fissazione di tali termini costituisce regola indefettibile per ogni e qualsiasi procedimento espropriativo" (Così Corte Costit. 257/1988); B) che la loro omessa fissazione comporta la giuridica inesistenza della dichiarazione di p.u. con tutte le conseguenze sopra evidenziate: prima fra tutte che tale situazione non è idonea a far sorgere il potere espropriativo e, dunque, ad affievolire il diritto soggettivo di proprietà sui beni espropriandi; e determina una situazione di carenza di potere che incide (negativamente) sui successivi atti e comportamenti della procedura ablativa, più non consentendone l'adozione; C) che tale indicazione (ove non apposta direttamente dalla legge) deve avvenire nello stesso atto avente "ex lege" valore di dichiarazione di pubblica utilità dell'opera, e quindi nell'atto con cui è approvato il progetto di opera pubblica; ed il relativo onere non può essere assolto mediante atti successivi, seppure in forma di convalida e di sanatoria, idonei ad eliminare l'intrinseca illegittimità del primo atto; D) che scaduti inutilmente i termini finali di cui all'art. 13, si esaurisce il potere dell'espropriante di condurre a compimento il procedimento ablativo; che può soltanto ricominciare attraverso la rinnovazione della dichiarazione di p.u necessariamente richiedente, come prescritto dalla norma, lo svolgimento ab inizio del procedimento amministrativo strumentale di cui si è detto, e quindi il compimento ex novo di tutte le formalità previste come indispensabili dalla legge per l'approvazione di quel progetto, con la considerazione della situazione attuale (anche dei luoghi), così come evoluta nelle more.
Nella diversa prospettiva dell'acquisizione coattiva, che intende riunire sia gli effetti espropriativi, sia la valutazione del pubblico interesse, anche la garanzia offerta dai termini dell'art. 13 è destinata a non trovare spazio, nè tutela effettiva, in quanto la norma non indica alcun limite temporale entro il quale l'Amministrazione debba esercitare il relativo potere: perciò esponendo il diritto dominicale su di esso al pericolo dell'emanazione del provvedimento acquisitivo senza limiti di tempo; ed accentuando, i seri dubbi di contrasto con l'art. 3 Cost., avanti manifestati, per il regime discriminatorio provocato tra il procedimento ordinario in cui l'esposizione è temporalmente limitata all'efficacia della dichiarazione di pubblica utilità (nella disciplina del T.U., anche a quella del vincolo preordinato all'esproprio), e quello sanante in cui il bene privato detenuto sine titulo è sottoposto in perpetuo al sacrificio dell'espropriazione.
6 - La nuova operazione sanante - in tutte le fattispecie individuate dall'art. 42-bis, compresa quella di utilizzazione del bene senza titolo "in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio" - presenta poi, numerosi ed insuperabili profili di criticità - non risolvibili in via ermeneutica - con le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo (art. 117 Cost.).
La quale, del resto, come già rilevato dalla Corte di Cassazione (Cass. 18239/2005; 20543/2008), si è già pronunciata in tali sensi, esaminando sia pure incidentalmente, l'allora vigente art. 43 T.U., interamente riprodotto nell'impianto del meccanismo traslativo, dall'attuale art. 42-bis. Il suo fulcro qualificante è ravvisato infatti nella prospettiva che la restituzione dell'immobile privato utilizzato per scopi di p.i., secondo le direttive della Convenzione, possa essere evitata soltanto a seguito di un legittimo e formale provvedimento che ne dispone l'acquisizione al patrimonio pubblico; e che deve, a sua volta, trovare giustificazione non più in una situazione fattuale e/o in una prassi giurisprudenziale, ma in una previsione legislativa. Per cui, la coesistenza di detti presupposti è apparsa al legislatore necessaria e nel contempo sufficiente per garantire il "rispetto dei parametri imposti dalla Corte europea e dai principi costituzionali": anche per l'obbligo imposto all'autorità amministrativa di "valutare gli interessi in conflitto", e perciò di "mantenere il giusto equilibrio tra le esigenze dell'interesse generale della comunità e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell'individuo".
Il quadro normativo prospettato dalla Corte EDU nella interpretazione delle tre norme dell'art. 1 del Prot. n. 1 - la prima afferma il principio generale di rispetto della proprietà; la seconda consente la privazione della proprietà solo alle condizioni indicate; la terza riconosce agli Stati il potere di disciplinare l'uso dei beni in conformità all'interesse generale- muove dalla regola che, per determinare se vi sia stata privazione dei beni ai sensi della seconda norma, occorre non solo verificare se vi sono stati spossessamene o espropriazione formale, ma anche guardare al di là delle apparenze ed analizzare la realtà della concreta fattispecie, onde stabilire se essa equivalga ad un'espropriazione di fatto o indiretta, atteso che la CEDU mira a proteggere diritti "concreti ed effettivi" (tra le tante, Papamichalopoulos c. Grecia, 24 giugno 1993; Acciardi c. Italia, 19 maggio 2005; Cadetta c. Italia, 15 luglio 2005;De Angelis c. Italia, 21 dicembre 2006; Pasculli c. Italia, 4 dicembre 2007). Per cui ha dichiarato in radicale contrasto con la Convenzione il principio dell'"espropriazione indiretta", con la quale il trasferimento della proprietà del bene dal privato alla p.a. avviene in virtù della constatazione della situazione di illegalità o illiceità commessa dalla stessa Amministrazione, con l'effetto di convalidarla, di consentire a quest'ultima di trarne vantaggio, nonchè di passare oltre le regole fissate in materia di espropriazione, con il rischio di un risultato imprevedibile o arbitrario per gli interessati.
E nella categoria suddetta la Corte ha sistematicamente inserito non soltanto l'ipotesi corrispondente alla c.d. occupazione espropriativa, ma tutte indistintamente le fattispecie (sent. 19 maggio 2005, Acciardi) di "perdita di ogni disponibilità dell'immobile combinata con l'impossibilità di porvi rimedio, e con conseguenze assai gravi per il proprietario che subisce una espropriazione di fatto incompatibile con il suo diritto al rispetto dei propri beni": ritenendo ininfluente "che una tale vicenda sia giustificata soltanto dalla giurisprudenza, ovvero sia consentita mediante disposizioni legislative, come è avvenuto con la L. n. 458 del 1988, art. 3 ovvero da ultimo con l'art. 43 del T.U., in quanto il principio di legalità non significa affatto esistenza di una norma di legge che consenta l'espropriazione indiretta, bensì esistenza di norme giuridiche interne sufficientemente accessibili, precise e prevedibili". Con la conseguenza che il supporto di "una base legale non è sufficiente a soddisfare al principio di legalità" e che "è utile porre particolare attenzione sulla questione della qualità della legge" (sent. Acciardi cit. 75; Scordino, 12 ottobre 2005, cit. 87 ed 88). E quella ulteriore che al nuovo istituto del T.U. i giudici di Strasburgo hanno mosso l'addebito di non aver neppure escluso, come aveva fatto la giurisprudenza ordinaria, che l'espropriazione indiretta potesse applicarsi quando la dichiarazione di p.u. sia stata annullata, avendo previsto "che anche in assenza della dichiarazione di p.u. qualsiasi terreno possa essere acquisito al patrimonio pubblico, se il giudice decide di non ordinare la restituzione del terreno occupato e trasformato dall'amministrazione" (CEDU, Sciarrotta, 12 gennaio 2006; Genovese, 2 febbraio 2006;
Serrao, 13 ottobre 2005; Scordino, 12 ottobre 2005, par. 90; S.A.S. Cerro e/Italia, cit. par. 76-80).
In tale ottica diviene del tutto indifferente per escludere la ricorrenza di espropriazioni di fatto incompatibili con il diritto al rispetto dei propri beni e ripristinare la legalità, l'adozione postuma di un provvedimento con pretesi effetti sananti, perchè il requisito della legalità secondo la Corte Edu non permette "in generale all'amministrazione di occupare un terreno e di trasformarlo irreversibilmente, di tal maniera da considerarlo acquisito al patrimonio pubblico, senza che contestualmente un provvedimento formale che dichiari il trasferimento di proprietà sia stato emanato" (Cfr. in particolare decisioni 17 maggio 2005, Pasculli; 19 maggio 2005, Acciardi e Campagna; 11 ottobre 2005, La Rosa; 11 ottobre 2005, Chirò; 12 ottobre 2005, Scordino; 13 ottobre 2005, Serrao; 7 novembre 2005, Istituto diocesano; 12 gennaio 2006, Sciarrotta; 23 febbraio 2006, S.A.S.; 20 aprile 2006, De Sciscio; 9 gennaio 2009, Sotira). Il contrasto con la Convenzione dipende, allora, dal riconoscimento nel nostro ordinamento - "en vertu d'un principe jurisprudentiel ou d'un texte de loi comme l'article 43" - di effetti traslativi all'occupazione e successiva modifica meramente fattuale di un terreno senza che sussista un atto formale che dichiari il trasferimento della proprietà "intervenant au plus tard au moment" in cui il proprietario ha perduto ogni potere sull'immobile: così come, del resto, oltre un secolo prima aveva richiesto la L. n. 2359 del 1865, art. 50. Perciò inducendola a concludere che ogni forma di espropriazione indiretta in ogni caso "n'a pas pour effet de regulariser la situation denoncee", nè tanto meno quello di costituire "un'alternativa ad un'espropriazione in buona e dovuta forma" (CEDU, 4, 15 novembre 2005, La Rosa; 3, 12 gennaio 2006, Sciarrotta, 1, 23 febbraio 2006, Immobiliare Cerro).
La "legalizzazione dell'illegale" non è conclusivamente consentita dalla giurisprudenza di Strasburgo neppure ad una norma di legge, nè tanto meno ad un provvedimento amministrativo di essa attuativo, quale è quello che disponga l'acquisizione sanante (Ucci, 22 giugno 2006; Cerro sas, 23 maggio 2006; De Sciscio, 20 aprile 2006; Dominici, 15 febbraio 2006; Serrao, 13 gennaio 2006; Sciarrotta, 12 gennaio 2006; Carletta, 15 luglio 2005; Scordino, 17 maggio 2005); ed in termini non dissimili si è espressa anche Corte Costituzionale n. 293/2010, per la quale "non è affatto sicuro che la mera trasposizione in legge di un istituto, in astratto suscettibile di perpetuare le stesse negative conseguenze dell'espropriazione indiretta, sia sufficiente di per sè a risolvere il grave vulnus al principio di legalità". Sicchè il ritorno alla via legale, come specificamente suggerito dalla stessa Corte Edu (sent. 6 marzo 2007, Scordino 3, cfr. anche, I, 13 luglio 2006, Zaffuto; 30 marzo 2006, Gianni) allo Stato italiano onde evitare ulteriori condanne, deve essere perseguito non regolarizzando ex post occupazioni già illegittime, bensì, anzitutto, in via preventiva, consentendo alla p.a. di immettersi nella proprietà privata soltanto se - e dopocchè - abbia già conseguito un legittimo titolo che autorizzi l'ingerenza; ed in caso in cui ciò non sia avvenuto "eliminando gli ostacoli giuridici che impediscono sistematicamente e per principio la restituzione del terreno", peraltro "in analogia con altri ordinamenti europei" (Corte Cost. 293/2010 cit.).
Il principio di legalità non è, infine, recuperabile in forza dei bilanciamenti e delle comparazioni tra interessi pubblici e privati devoluti dalla norma all'autorità amministrativa che dispone l'acquisizione: avendo la Corte EDU affermato fin dalla nota decisione Belvedere - Alberghiera del 30 maggio 2000, nella quale l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sent. 1/1996) aveva dato precedenza all'interesse pubblico specifico della collettività alla realizzazione di un'opera idrica per la stessa indispensabile (seppur mancante di dichiarazione di p.u. perchè annullata dallo stesso giudice amministrativo), che la necessità di esaminare tale questione è inattuabile in caso di ingerenza illegittima nella proprietà (in cui la Convenzione privilegia quello privato, postulandone comunque la reintegrazione), ma "può porsi soltanto a condizione che l'ingerenza litigiosa abbia osservato il principio di legalità e non sia risultata arbitraria". Sicchè ha egualmente condannato lo Stato italiano non certamente per l'assenza (allora) nell'ordinamento interno di una norma con valore sanante della illegittimità della procedura ablativa, ma perchè "la decisione del Consiglio di Stato aveva privato la ricorrente della possibilità di ottenere la restituzione del suo terreno....che per essere compatibile con l'art. 1 del Protocollo deve essere attuata per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi di diritto internazionale" ( 54 e 55; nonchè Ucci c. Italia, 22 giugno 2006). E d'altra parte, poichè la norma attribuisce ad uno dei due portatori dell'interesse in conflitto – ovvero alla P.A. responsabile dell'illecito ed interessata alla acquisizione dell'immobile - il potere di comparare gli interessi suddetti (CEDU, 3, 9 febbraio 2006, Prenna), e, quindi la scelta di restituirlo ovvero di acquisirlo al proprio patrimonio indisponibile, il suo assetto reale non dipende più (neppure) dalla sua (oggettiva) trasformazione in un bene demaniale o patrimoniale indisponibile, ma viene affidato esclusivamente alla volontà dell'Amministrazione - per quanto detto, senza neppure limiti temporali - di ricorrere al nuovo istituto; nonchè, in caso di impugnazione del provvedimento di acquisizione, alla pronuncia del giudice amministrativo di consentirne o escluderne la restituzione: con conseguente incertezza ed imprevedibilità della situazione giuridica fino al momento della sentenza definitiva. Il che ha indotto i giudici di Starsburgo a rilevare, con la più qualificata dottrina, che con tale regime scompare anche quel minimo di prevedibilità che un sistema normativo è tenuto ad assicurare: attesa l'inidoneità della base legale su cui si fonda la consentita compromissione della proprietà ad assicurare il sufficiente grado di certezza postulato dalla Convenzione attraverso "l'esistenza di norme giuridiche interne sufficientemente accessibili, precise e dagli effetti prevedibili"; e rende l'istituto nuovamente incompatibile con la Convenzione "non potendosi escludere il rischio di un risultato imprevedibile o arbitrario" (CEDU, 2, 28 giugno 2011, De Caterina; 20 aprile 2006, De Sciscio; 3, 2 febbraio 2006, Genovese).
La Corte europea, pur non escludendo che in materia civile una nuova normativa possa avere efficacia retroattiva, ha ripetutamente considerato lecita l'applicazione dello ius superveniens in causa soltanto in presenza di "imperieux motifs d'interet general"; ed affermato che in ogni altro caso essa si concreta nella violazione del principio di legalità nonchè del diritto ad un processo equo perchè consente al potere legislativo di introdurre nuove disposizioni specificamente dirette ad influire sull'esito di un giudizio già in corso (in cui è parte un'amministrazione pubblica), ed induce il giudice a decisioni su base diversa da quella alla quale la controparte poteva legittimamente aspirare al momento di introduzione della lite (cfr. sentenza della Grande Chambre, 28 ottobre 1999, Zielinski; nonchè Forrer-Niedenthal, 20 febbraio 2003, proprio in materia di espropriazione per p.u.; OGIS, 27 maggio 2004; nonchè Scordino c/Italia, 29 luglio 2004, 78).
Questa situazione - già posta in evidenza dalla Cassazione vigente l'incostituzionale art. 43 T.U. (Cass. 21867/2011; 20543/2008; sez. un. 26732/2007) - si è riproposta proprio per effetto dell'art. 42-bis, il quale, malgrado la precisazione del primo comma che l'atto di acquisizione è destinato a non operare retroattivamente (rivolta a rispondere ad uno dei rilievi espressi da Corte Costituzionale n. 293 del 2010), con la menzionata disposizione ha confermato la possibilità dell'Amministrazione di utilizzare il provvedimento sanante ex tunc, ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato: in conformità del resto alla finalità di attribuire alle amministrazioni occupanti una legale via di uscita dalle situazioni di illegalità venutesi a verificare nel corso degli anni (anche pregressi).
7 – Infine, neanche l'indennizzo/risarcimento stabilito quale corrispettivo dell'acquisizione risulta esente da dubbi di legittimità costituzionale, in quanto l'art. 42-bis, comma 3, ne fissa i seguenti parametri: “Salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti, l'indennizzo per il pregiudizio patrimoniale di cui al comma 1 è determinato in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l'occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell'art. 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7".
Sennonchè la Corte costituzionale (sent. 369/1996), nel dichiarare l'incostituzionalità della L. n. 549 del 1995, art. 1, comma 65, che aveva equiparato l'entità del risarcimento del danno da occupazione acquisitiva a quella dell'indennizzo espropriativo, aveva affermato che ".. è innegabile, in primo luogo, la violazione che ne deriva del precetto di eguaglianza, stante la radicale diversità strutturale e funzionale delle obbligazioni così comparate. Infatti, mentre la misura dell'indennizzo - obbligazione ex lege per atto legittimo - costituisce il punto di equilibrio tra interesse pubblico alla realizzazione dell'opera e interesse del privato alla conservazione del bene, la misura del risarcimento - obbligazione ex delicto - deve realizzare il diverso equilibrio tra l'interesse pubblico al mantenimento dell'opera già realizzata e la reazione dell'ordinamento a tutela della legalità violata per effetto della manipolazione-distruzione illecita del bene privato. E quindi sotto il profilo della ragionevolezza intrinseca (ex art. 3 Cost.), poichè nella occupazione appropriativa l'interesse pubblico è già essenzialmente soddisfatto dalla non restituibilità del bene e dalla conservazione dell'opera pubblica, la parificazione del quantum risarcitorio alla misura dell'indennità si prospetta come un di più che sbilancia il contemperamento tra i contrapposti interessi, pubblico e privato, in eccessivo favore del primo" (considerazioni analoghe si rinvengono nelle decisioni 442/1993; 188/1995; 148/1999; 349/2007). Nel caso, i ricordati principi sono stati disattesi sotto diversi profili, in quanto disponendo che detto indennizzo debba essere sempre e comunque commisurato "al valore venale del bene utilizzato", il legislatore:
a) attribuisce ai proprietari interessati da un provvedimento di acquisizione sanante un trattamento deteriore rispetto a quelli, che in mancanza di detto provvedimento sono ammessi a chiedere la restituzione dell'immobile insieme al risarcimento del danno, pur quando destinatari di una medesima occupazione abusiva in radice (c.d. usurpativa): in quanto soltanto a questi ultimi è consentito ottenere l'intero risarcimento del danno sofferto, in base ai parametri dell'art. 2043 cod. civ. del danno emergente e del lucro cessante (utili, occasioni e vantaggi che il proprietario provi di aver perduto dalla mancata disponibilità del bene: Cass. 14609/2012; 4052/2009; 2746/2008; 15710/2001; 1196/1986; 3590/1983); b) tale trattamento resta inferiore pur nel confronto con l'espropriazione legittima dello stesso immobile, in quanto, ove avente destinazione edificatoria, non è riconosciuto l'aumento del 10% di cui al T.U., art. 37, comma 2 (non richiamato dalla norma), se l'accordo di cessione è stato concluso, se non è stato concluso per fatto non imputabile all'espropriato o se l'indennità provvisoria attualizzata è inferiore all'80% di quella definitiva: e quindi a maggior ragione se nessuna indennità viene offerta, come è peculiare del procedimento di cui all'art. 42-bis. Mentre se il terreno è agricolo non è applicabile il precedente art. 40, comma 1 che impone di tener conto (Cfr. Corte Costituzionale 181/2011) delle colture effettivamente praticate sul fondo e "del valore dei manufatti edilizi legittimamente realizzati, anche in relazione all'esercizio dell'azienda agricola" (Cass. 23967/2010; 10217/2009; 11782/2007; 4848/1998): nel caso specificamente richiesto dai ricorrenti titolari di un'azienda agricola, che in conseguenza di un'espropriazione rituale avrebbero avuto diritto all'inclusione nell'indennità anche del relativo pregiudizio; e) incorre in una disparità più palese con il regime di quest'ultima laddove non considera affatto l'ipotesi di espropriazione parziale; e non consente di tener conto della diminuzione di valore del fondo residuo, invece indennizzata fin dalla L. n. 2359 del 1865, art. 40 (anche nelle ipotesi di occupazione appropriativa: Cass. 8197/2012; 591/2008; 24435/2006), ora trasfuso nell'art. 33 del T.U.; d) ha trasformato il precedente regime risarcitorio in un indennizzo derivante da atto lecito, che di conseguenza assume natura di debito di valuta non automaticamente soggetto alla rivalutazione monetaria (art. 1224 c.c., comma 2). A differenza del risarcimento da espropriazione e/o occupazione illegittime, costituente credito di valore, che deve essere liquidato alla stregua dei valori monetari corrispondenti al momento della relativa pronuncia, sicchè il giudice deve tenere conto della svalutazione monetaria sopravvenuta fino alla decisione, anche di ufficio, a prescindere dalla prova della sussistenza di uno specifico pregiudizio dell'interessato dipendente dal mancato tempestivo conseguimento dell'indennizzo medesimo (tra tante, Cass. 1889/2013; 4010/2006; 9711/2004).
Tale natura risarcitoria sembra invece mantenuta dall'art. 42-bis, comma 3, al corrispettivo per il periodo di occupazione illegittima antecedente al provvedimento di acquisizione ("Per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l'interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato ai sensi del presente comma): tuttavia pur esso determinato in base ad un parametro riduttivo rispetto a quelli cui è commisurato l'analogo indennizzo per l'occupazione temporanea dell'immobile. In quanto: a) il parametro base è costituito dall'interesse del cinque per cento annuo sul valore venale dell'immobile stimato ai fini dell'indennizzo, perciò corrispondente a circa 1/20 del suo valore annuo. Laddove l'art. 50 del T.U., recependo analoga disposizione contenuta nella L. n. 865 del 1971, art. 20 stabilisce in tutti i casi di occupazione legittima di un immobile che "è dovuta al proprietario una indennità per ogni anno pari ad un dodicesimo di quanto sarebbe dovuto nel caso di esproprio dell'area e, per ogni mese o frazione di mese, una indennità pari ad un dodicesimo di quella annua": perciò corrispondente ad una redditività predeterminata più elevata misura percentuale dell'8,33% all'anno sul valore venale dell'immobile; b) il richiamo all'indennità di espropriazione consente altresì l'applicazione del principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità (Cass. 21352/2004; sez. un. 10502/2012; 24303/2010), che nell'ipotesi di espropriazione parziale la percentuale suddetta vada calcolata sull'indennità di espropriazione computata tenendo conto anche del decremento di valore subito dalla parte dell'immobile rimasta in proprietà dell'espropriato: invece non autorizzato dal parametro rigido contenuto nell'art. 42 bis, comma 3.
Per cui anche il ristoro patrimoniale attribuito dalla norma non consente di escludere il rilievo più volte rivolto dalla Corte EDU al legislatore nazionale, che pure il meccanismo riduttivo di determinazione dell'indennizzo/risarcimento da occupazione senza titolo consente all'espropriante, che omette di svolgere il procedimento previsto dalla legge, di avvantaggiarsi ulteriormente del suo comportamento illegittimo, esonerandolo dal corrispondere una porzione del ristoro dovuto nel caso di occupazione/espropriazione legittime: perciò non favorendo la buona amministrazione e non contribuendo a prevenire episodi di illegalità.
Conclusivamente, vanno dichiarate rilevanti, e non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale riguardanti il D.P.R. n. 327 del 2001, art. 42-bis:
- per contrasto con il precetto di eguaglianza nonchè di ragionevolezza intrinseca di cui all'art. 3 Cost. sotto ciascuno dei diversi profili di cui in motivazione, involgenti anche l'art. 24 Cost.
- per contrasto con i precetti e le garanzie posti dall'art. 42 Cost. a tutela della proprietà privata, nonchè con il principio di legalità dell'azione amministrativa contenuto negli art. 97 e 113 Cost.: sotto i diversi profili di cui in motivazione;
- per contrasto con l'art. 117 Cost., comma 1, anche alla luce dell'art. 6 e dell'art. 1 del 1^ prot. add. della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, sotto i diversi profili di cui in motivazione, con cui se ne è evidenziata la disciplina lesiva del diritto di proprietà, nonchè del diritto al rispetto dei propri beni, in violazione dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda) non definitivamente decidendo sul ricorso come in epigrafe proposto, così statuisce:
- dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 42-bis del T.U. delle Espropriazioni per Pubblica Utilità approvato con D.P.R. n. 327 del 2001, introdotto dall’art. 34 del D.L. 6 luglio 2011, n. 98, convertito con modificazioni dalla L. 15 luglio 2011, n. 111, per contrasto, nei sensi di cui in motivazione, con gli artt. 3, 24, 42, 97, Costituzione, nonchè per contrasto con l’art. 117 cost., comma 1, anche alla luce dell'art. 6 e dell'art. 1 del 1 Protocollo Addizionale della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali, resa esecutiva con L. 4 agosto 1955, n. 848;
- dispone la sospensione del presente giudizio e la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;
- dispone che la presente ordinanza sia notificata, a cura della Segreteria, alle parti costituite e al Presidente del Consiglio dei Ministri, ed inoltre comunicata al Presidente della Camera dei Deputati e al Presidente del Senato della Repubblica.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 novembre 2014 con l'intervento dei magistrati:
Salvatore Mezzacapo, Presidente
Maria Cristina Quiligotti, Consigliere, Estensore
Silvia Martino, Consigliere
 
 
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
 
 
 
 
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 02/03/2015
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
 

 

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