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Interventi edilizi Regione Lazio

Privato
Martedì, 24 Gennaio, 2023 - 09:30

Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, (Sezione Seconda Bis), sentenza n. 17543 del 27 dicembre 2022, su interventi edilizi ampliativi nella Regione Lazio

MASSIMA

L’art. 1 della legge regionale del Lazio n. 7 del 2017, così come l’art. 5, comma 9, del d.l. n. 70 del 2011 di cui costituisce attuazione, è norma eccezionale e derogatoria; pertanto, gli interventi di razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente, anche col riconoscimento di una volumetria aggiuntiva quale misura premiale, non sono suscettibili di interpretazione estensiva e non possono essere consentiti al di fuori dei casi e delle ipotesi espressamente previsti dalla legge stessa.

SENTENZA

N. 17543/2022 REG.PROV.COLL.

N. 13938/2021 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Seconda Bis)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 13938 del 2021, integrato da motivi aggiunti, proposto da “E.” S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Alessandro Pallottino e Anna Palmerini, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Alessandro Pallottino in Roma, via Oslavia 12;

contro

Roma Capitale, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Alessia Alesii, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

per l'annullamento

Per quanto riguarda il ricorso introduttivo:

della S.C.I.A. presentata per intervento di demolizione e ricostruzione edificio.

Per quanto riguarda i motivi aggiunti presentati da “Ecocoldilana” S.r.l. l’8/7/2022:

Diniego rilascio permesso di costruire.

Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 11 novembre 2022 il dott. Giuseppe Licheri e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO

1.1 Con ricorso introduttivo notificato il 31.12.2021 – e depositato in pari data – la “E.” s.r.l. impugnava la d.d. n. 194652 del 29.11.2022 con cui la direzione tecnica del Municipio I di Roma Capitale rendeva nota alla ricorrente la nullità ed inefficacia della SCIA alternativa al permesso di costruire prot. n. CA/126322 del 26.7.2021 – avente ad oggetto lavori di demolizione e ricostruzione di un immobile con ampliamento di SUL e volume ai sensi della L.R. Lazio n. 7/2017 – nonché la nota del 5.10.2021 – poi precisata con nota del successivo 12.10.2021 – con cui veniva indetta la conferenza di servizi per acquisire il parere della Sovraintendenza Capitolina sugli interventi prospettati (trattandosi di immobile ricadente in ambito interessato dalla “Carta della Qualità”), e il verbale della suddetta conferenza tenutasi il 13.10.2021, con il coevo parere negativo espresso dalla cennata Sovrintendenza e trasmesso alla ricorrente, per sola conoscenza, con nota della direzione tecnica municipale del 3.11.2021.

Espone la ricorrente di essere proprietaria del fabbricato da cielo a terra sito in Roma alla via Col di Lana nn. 24-26, immobile acquistato il 23.12.2020 e precedentemente adibito ad albergo, destinazione asseritamente cessata, in via definitiva, quanto meno dal 14.7.2020 per diniego del parere dell’ASL all’utilizzo dei locali interrati destinati a servizi.

In tale contesto, la ricorrente afferma di aver acquistato l’edificio al fine di provvederne alla demolizione e ricostruzione con incremento di SUL e volume ai sensi dell’art. 6 della L. R. Lazio n. 7/2017 e a tale scopo, in data 20.5.2021, sottoponeva il proprio progetto al parere preventivo della Sovrintendenza Capitolina per come prescritto dall’art. 16, comma 10, delle NTA al PRG e, decorsi inutilmente i 60 giorni ivi prescritti per l’espressione dell’atto consultivo di competenza, presentava, il 26.7.2021, SCIA in alternativa al permesso di costruire alla quale, però, la direzione tecnica municipale replicava – il 24.8.2021 – che, per il tipo di intervento proposto (comportante aumento di volume e modifica di sagoma in zona “A”), l’art. 10 del d.P.R. n. 380/2001 imponesse il rilascio di permesso di costruire, con conseguente avvio del procedimento di annullamento in autotutela della SCIA.

Dopo aver confermato, con nota del 5.10.2021, l’assoggettabilità dell’intervento proposto a SCIA e aver indetto conferenza di servizi per la verifica dei requisiti di cui agli artt. 1 e 2 della L.R. Lazio n. 7/2017 e per l’espressione esplicita del parere sulla Carta della Qualità, perveniva alla ricorrente, per sola conoscenza, copia dell’atto consultivo a carattere negativo rilasciato dalla Sovrintendenza in occasione della conferenza di servizi del 13.10.2021.

In detto parere, l’ufficio da ultimo citato riteneva che l’edificio in questione fosse “un esempio formalmente coerente delle morfologie urbane citate e perfettamente integrato nel tessuto urbano del quartiere. [Riteneva inoltre] che non sussistano le caratteristiche previste all’art. 1 e 6 della legge Regione Lazio n. 7/2017 essendo l’area tra le più pregevoli della città e l’edificio in buono stato di conservazione e a tutt’oggi utilizzato” e, per tale motivo, preannunciava la propria posizione contraria alla demolizione dell’edificio, alla quale si accodava anche la direzione tecnica del Municipio I precisando come “l’immobile, ai sensi dell’art. 1, comma 1b della L.R. n. 7 del 2017 deve possedere i requisiti per le finalità della legge, ossia la riqualificazione di edifici in stato di degrado e abbandono e che nella fattispecie l’immobile non possiede visto che attualmente ha una funzione di albergo seppure dismesso”.

A tali statuizioni faceva seguito il provvedimento gravato con ricorso principale, ossia la nota prot. CA/194652 del 29.11.2021 con cui la direzione tecnica municipale, facendo proprie le risultanze della conferenza di servizi sopra esposte, comunicava l’inefficacia della SCIA alternativa al permesso di costruire del 26.7.2021 precisando che “l’edificio, oggetto dell’intervento, realizzato nel periodo ‘Umbertino’ non è in disuso e non risponde ai requisiti così come definiti dall’art. 1 della L.R. n. 7/2017 ossia ‘complessi edilizi e di edifici in stato di degrado o di abbandono o dismessi o inutilizzati o in via di dismissione o da rilocalizzare’, visto che l’immobile da ricerca effettuate sul portale GET è destinato ad attività alberghiera”.

1.2. Avverso il provvedimento così impugnato, la ricorrente deduceva i seguenti mezzi di gravame:

I) Violazione degli artt. 19, commi 3, 4 e 6 bis della legge n. 241/1990 in relazione agli artt. 22 e 23 del d.P.R. n. 380/2001. Violazione degli artt. 21-nonies, 14-bis, comma 1, 7 e ss. della legge n. 241/1990. Eccesso di potere per ambiguità del procedimento e del processo e per difetto di motivazione.

Ritiene la ricorrente che il provvedimento gravato sia illegittimo poiché assunto in spregio ai termini previsti dagli artt.19 della legge n. 241/1990 e 22 e 23 del d.P.R. n. 380/2001 per l’adozione di provvedimenti inibitori o repressivi degli effetti di una SCIA già efficace.

Allo stesso modo, l’atto impugnato sarebbe illegittimo anche perché carente dell’esplicazione dei presupposti di legge previsti dall’art. 21-nonies della l. n. 241/1990 per l’esercizio del potere di autotutela, nonché per non essere stato l’esercizio del medesimo preceduto dal rispetto delle garanzie procedimentali di cui alla medesima legge;

II) Violazione dell’art. 16, comma 10, delle NTA al PRG e del protocollo Mibac-Comune di Roma dell’8.9.2009 in ordine al termine per l’espressione del parere sulla Carta della Qualità. Consumazione del potere. Violazione degli artt. 7 e 21 nonies della l. n. 241/90. Eccesso di potere contraddittorietà, vizio della motivazione e difetto ed errore dell’istruttoria.

Lamenta la ricorrente la violazione del termine di 60 giorni, di cui all’art. 16, comma 10 delle NTA al PRG vigente del comune di Roma e al protocollo Mibac-Roma dell’8.9.2009, previsto per il rilascio del parere obbligatorio della Sovrintendenza capitolina sui progetti recanti interventi edilizi concernenti immobili rientranti nella Carta della Qualità, con conseguente formazione del silenzio-assenso e consumazione del relativo potere di rendere il parere in questione, la cui tardiva emanazione costituirebbe, altresì, atto di riesame del potere precedentemente esercitato per silentium in violazione della disciplina in materia di autotutela decisoria recata dalla l. n. 241/90;

Inoltre, ad avviso della ricorrente, il parere reso sarebbe anche infondato nel merito, giacché il giudizio ivi espresso sarebbe in contrasto non solo con le caratteristiche di molti edifici insistenti nella medesima zona, ma anche con le prescrizioni recate dalla L.R. Lazio n. 7/2017, il cui rispetto da parte dell’intervento edilizio proposto, a giudizio della ricorrente, non avrebbe neppure potuto formare oggetto di parere da parte di un organo incompetente ad esprimersi quale la Sovrintendenza capitolina.

III) Violazione dell’art. 1 della L.R. Lazio n. 7/2017. Eccesso di potere per perplessità, falsità dei presupposti, errore nell’istruttoria e nella motivazione.

Con il motivo di gravame in questione, parte ricorrente contesta l’assenza dei presupposti per l’applicazione delle premialità previste dalla normativa regionale invocata, assenza attestata dalle autorità comunali sulla scorta dell’asserita mancata cessazione dell’attività alberghiera ivi svolta laddove viceversa, a parere dell’amministrazione, la stessa sarebbe stata solo momentaneamente sospesa, circostanza questa ritenuta dalla ricorrente priva di fondamento e, comunque, non conferente col caso di specie, posto che la normativa regionale in questione consentirebbe l’applicazione dei benefici invocati anche a fronte di “edifici in via di dismissione”.

Tale ultima determinazione, peraltro, si porrebbe, secondo la ricorrente, in contrasto con l’interpretazione della disciplina in esame fornita proprio dalla Regione Lazio con il parere prot. N. 603670 del 12.7.2021, dal quale si ricaverebbe che “Le condizioni di abbandono, dismissione o di inutilizzazione sono dunque alternative tra loro e, altresì, alternative a quelle di degrado strutturale dell’edificio”.

1.3. Si concludeva l’atto di gravame con la richiesta di concessione di misure cautelari collegiali ai sensi dell’art. 55 c.p.a. e con l’illustrazione dei relativi presupposti.

1.4. Si costituiva in giudizio Roma Capitale contestando la fondatezza di tutti i motivi di ricorso dedotti e la sussistenza delle condizioni di legge per la concessione della sospensione interinale del provvedimento gravato, di cui veniva sostenuta, viceversa, la piena conformità a diritto.

2. All’udienza camerale del 28.1.2022, fissata per la trattazione dell’incidente cautelare, la parte ricorrente, resa edotta della possibile definizione dell’affare nel merito entro l’anno in corso, rinunciava alla richiesta di concessione delle misure cautelari.

3. Con ordinanza n. 633/2022 il Collegio, preso atto della rinuncia alla richiesta di sospensione interinale del provvedimento gravato e della disponibilità di parte resistente alla compensazione delle spese di giudizio, fissava l’udienza pubblica dell’11.11.2022 per la trattazione del merito del ricorso.

4.1. Con atto di motivi aggiunti notificato il 13.6.2022 e depositato il successivo 8 luglio, la “Ecocoldilana” s.r.l. impugnava la determinazione dirigenziale prot. N. QI/48336/2022 del 23.3.2022 – notificata il 15.4.2022 – con cui il competente Dipartimento di Roma Capitale aveva respinto l’istanza di rilascio di permesso di costruire prot. N. QI/145272/2021 presentato dalla ricorrente, nonché il preavviso di diniego prot. QI/169235 del 4.10.2021 ed il verbale della conferenza di servizi del 13.10.2021, trasmesso con nota del 3.11.2021, prot. N. 179305.

Espone la ricorrente che, all’indomani della presentazione della SCIA del 26.7.2021, “il progettista era stato informato per le vie brevi dagli Uffici capitolini che sussistevano delle perplessità in ordine alla ammissibilità dell’utilizzo della SCIA per l’esecuzione dei lavori di ristrutturazione edilizia progettati sicché, senza attendere il termine di legge per il consolidarsi della SCIA, detto progettista in data 10.08.2021 presentava per lo stesso identico progetto anche istanza per il rilascio del permesso di costruire al Dip. PAU” (pag. 2 dei motivi aggiunti).

Nonostante le perplessità così manifestate, tuttavia l’iter per il consolidarsi della SCIA proseguiva giungendo, infine, all’emanazione della nota prot. N. 194652 del 29.11.2021 con cui l’amministrazione resistente annullava la SCIA frattanto consolidatasi e che forma oggetto del ricorso principale proposto sempre dalla medesima ricorrente.

Malgrado ciò, rilevava la ricorrente che il Dipartimento PAU di Roma Capitale concludeva l’istruttoria sul medesimo progetto già esaminato dal Municipio I ed adottava un successivo provvedimento di diniego, fondandolo sulle stesse motivazioni già contenute nel provvedimento di annullamento della SCIA.

Ciò induceva la “Ecocoldilana” ad avanzare ricorso per motivi aggiunti adducendo i seguenti mezzi di gravame:

IV) Violazione degli artt. 3 del d.P.R. n. 380/2001 e dell’art. 6 della L.R. Lazio n. 7/2017. Violazione del principio del ne bis in idem. Violazione dell’art. 97 Cost. Eccesso di potere per illogicità e contraddittorietà, aggravamento della procedura e sviamento di potere.

Afferma la ricorrente che la sovrapposizione dei due procedimenti – quello avente ad oggetto la SCIA alternativa al permesso di costruire e quello riguardante il rilascio del titolo abilitativo espresso – avrebbe dovuto condurre alla riunificazione delle due istanze ed alla loro trattazione unitaria, onde evitare l’emanazione di due provvedimenti aventi il medesimo oggetto.

Diversamente da ciò, l’amministrazione avrebbe invece mantenuto in essere entrambi i procedimenti, “utilizzando l’esito del primo come presupposto del secondo, ed il secondo come rafforzativo degli esiti negativi del primo” (pag. 7 dei motivi aggiunti), così aggravando la procedura ed esercitando il potere istruttorio al solo fine di aggravare la portata del diniego adducendo ulteriori motivazioni a quelle già espresse in precedenza, in particolare qualificando, nel diniego di permesso di costruire, l’intervento quale nuova edificazione e non già ristrutturazione edilizia, come invece rilevato con il provvedimento di annullamento della SCIA.

Ciò appare, ad avviso della ricorrente, indice di contraddittorietà dell’operato dell’amministrazione contrastante, tra l’altro, col parere reso dall’Avvocatura capitolina in data 4.10.2021, il quale riteneva viceversa sussumibile l’intervento in questione nella tipologia della ristrutturazione edilizia ex art. 3, lett. d) del d.P.R. n. 380/2001

Ad ogni modo, per il caso in cui il diniego di permesso di costruire fosse da considerare come diretto al rigetto di un intervento di nuova edificazione, la ricorrente ne deduce l’illegittimità per violazione dell’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 e dell’art. 6 della L.R. Lazio n. 7/2017.

In particolare, sostiene la ricorrente che l’intervento proposto consisterebbe in una ristrutturazione edilizia “leggera” di cui all’art. 3, lett. d) del d.P.R. n. 380/2001 il quale, a seguito delle modifiche introdotte per effetto dell’art. 10, comma 1, lett. b) della l. n. 120/2020, ultimo periodo consentirebbe, anche nelle zone “A” e assimilate e nei centri storici, interventi di ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione anche in deroga ai limiti previsti dalla norma generale in applicazione di previsioni legislative e strumenti urbanistici, rinvenendo la disposizione derogatoria nell’art. 6 della L.R. Lazio n. 7/2017 che consente quelle modifiche anche in deroga al PRG, in quanto l’intervento diretto con le previste premialità sarebbe “sempre ammesso”.

V) Violazione degli art. 7 del D.M. 1444/1968, dell’art. 41 quinquies della l. n. 1150/1942, degli artt. 6 e 8 della L.R. Lazio n. 7/2017, dell’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001. Eccesso di potere per contraddittorietà, illogicità e insufficienza della motivazione.

Con il presente motivo, parte ricorrente contesta il rigetto dell’istanza di permesso di costruire prot. QI/2021/145272 per l’asserito contrasto del progetto: a) con l’art. 7 del D.M. 1444/1968, per superamento del limite di densità edilizia; e b) con l’art. 41-quinquies della L. 1150/9142, per il superamento del limite massimo di altezza ammissibile in modalità diretta.

A parere della ricorrente, tali norme si riferirebbero solamente alle nuove costruzioni, mentre alcun limite si porrebbe per quanto riguarda gli interventi di ristrutturazione edilizia se non il mantenimento della densità preesistente.

Del pari, anche l’art. 41-quinquies riferirebbe il limite di altezza di 25 m. esclusivamente alle nuove costruzioni.

Anche l’art. 8, comma 3, della L.R. Lazio n. 7/2017 consentirebbe, per la ricostruzione degli edifici demoliti e la realizzazione delle finalità premiali previste dalla stessa legge, la deroga alle densità fondiarie di cui all’art. 7 del D.M. 1444/1968 e alle altezze massime consentite dall’8 del medesimo decreto.

VI) Violazione e falsa applicazione dell’art. 1 della L.R. Lazio n. 7/2017. Eccesso di potere per perplessità nell’agire, falsità del presupposto, errore nell’istruttoria e nella motivazione.

Parte ricorrente contesta la valutazione, effettuata da Roma Capitale, in ordine all’insussistenza dei presupposti che l’art. 1 della L.R. Lazio n. 7/2017 pretende per l’applicazione delle premialità – in termini di superficie utile e volumetria – riconosciute agli interventi di demolizione e ricostruzione con cui si attuano la rigenerazione urbana e la riqualificazione delle aree urbane degradate.

In particolare, a fronte del rilievo, mosso dall’amministrazione resistente, secondo cui l’edificio in questione non si troverebbe in situazione di degrado e abbandono, ma solo di temporanea cessazione dell’attività alberghiera dovuta alla pandemia da Covid-19, parte ricorrente oppone documentazione comprobante, a suo dire, la definitiva dismissione di ogni attività produttiva sull’immobile quantomeno a decorrere dal mese di luglio 2020, ossia in data antecedente l’acquisto da parte della “Ecocoldilana”.

Senza considerare comunque, sempre secondo la ricorrente, che l’art. 1, comma 1, lett. b). della legge regionale sopra evocata consente l’applicazione della premialità incentivante anche a favore di quegli interventi di riqualificazione delle aree urbane degradate che si attuino su edifici “in via di dismissione” e che, in ogni caso, la Regione Lazio, con il parere N. 603670 del 12.7.2021 – già precedentemente citato – avrebbe chiarito non solo che le condizioni di abbandono, dismissione o inutilizzazione sarebbero alternative tra di loro, ma che il ventaglio di finalità che la rigenerazione e

riqualificazione urbana intendono conseguire avrebbe una certa ampiezza, e sicuramente comprenderebbe “gli interventi volti a conferire un nuovo e diverso utilizzo a volumetrie esistenti ma prive di una utile funzione attiva”.

VII) Violazione dell’art. 16, comma 10, delle NTA al PRG e del protocollo tra Mibac e Comune di Roma dell’8.9.2009. Consumazione del potere. Violazione degli artt. 7 e 21 nonies della l. n. 241/1900. Eccesso di potere per errore nell’istruttoria e vizio della motivazione.

Il motivo di ricorso in questione riproduce il mezzo di impugnazione di cui al punto II) del ricorso introduttivo, incentrandosi sulla violazione del principio di consumazione del potere della Sovrintendenza Capitolina di esprimere il parere di propria competenza trascorsi 60 giorni dalla richiesta, con conseguente formazione del silenzio-assenso.

Ancora, si censura la violazione dei presupposti per l’esercizio del potere di autotutela decisoria in ordine all’asserita manifestazione tacita del parere da parte del suddetto ufficio.

Infine, si contesta nel merito la correttezza, sotto il profilo tecnico, del parere espresso dalla Sovrintendenza.

4.2. Ha resistito ai motivi aggiunti Roma Capitale, sostenendo l’infondatezza dei medesimi e la correttezza e legittimità dell’operato dell’amministrazione capitolina.

In particolare, quanto alla sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle misure premiali previste dall’art. 1 della L.R. Lazio n. 7/2017, parte resistente ha evocato i principi giurisprudenziali affermati da questo Tribunale nella pronuncia n. 10851/2020, secondo la quale tanto la normativa nazionale (art. 5, comma 9, d.l. n. 70/2011), quanto quella regionale di essa attuativa (art. 1, comma 1, lett. b) della cennata legge regionale laziale) sarebbero volte a favorire la riqualificazione di aree urbane degradate e di edifici in stato di degrado e abbandono, non potendo detta previsione non vincolare l’autorità in sede di riscontro alle istanze di permesso di costruire che dunque, in difetto dei suindicati presupposti di degrado e abbandono del fabbricato, non potrebbe essere rilasciato.

Quanto, poi, al superamento dei limiti di densità edilizia – che, a parere della ricorrente, sarebbero legittimati, nel caso di specie, dal carattere di ristrutturazione edilizia che l’intervento in questione possiederebbe in ragione del perseguimento delle finalità previste dalla L.R. Lazio n. 7/2017 – Roma Capitale, oltre a contestare la riconducibilità delle opere prospettate alla species della ristrutturazione edilizia, rammenta l’indirizzo della giurisprudenza costituzionale (esemplificato da Corte Cost. n. 217/2020) incline ad attribuire efficacia vincolante e non derogabile dal legislatore regionale ai limiti fissati dal d.m. n. 1444/1968, costituendo essi principi fondamentali della materia a tutela del primario interesse generale all’ordinato sviluppo urbano.

Ancora, Roma Capitale ha replicato al motivo di ricorso concernente la ritenuta formazione del silenzio-assenso sul parere richiesto alla Sovrintendenza Capitolina ai sensi dell’art. 16, comma 10, delle NTA al PRG vigente, chiamando a sostegno le conclusioni cui sarebbe pervenuta la pronuncia n. 5346/2021 del Consiglio di Stato, secondo la quale la norma tecnica invocata non prevederebbe l’acquisizione del parere, in senso favorevole, una volta decorsi i termini per l’espressione del parere.

Per il resto, parte resistente ha riaffermato la fondatezza dei motivi di diniego già espressi con i provvedimenti gravati.

5. In prossimità della discussione dell’affare, le parti hanno scambiato memorie ai sensi dell’art. 73 c.p.a.

Parte ricorrente, in particolare, ha sostenuto l’inconferenza al caso di specie dei precedenti giurisprudenziali evocati da Roma Capitale, ribadendo inoltre la sussistenza di tutti i presupposti previsti dalla L.R. Lazio n. 7/2017 per l’attuazione dell’intervento di rigenerazione urbana che essa si propone di attuare, con conseguente valenza derogatoria che essi conferirebbero ai limiti di altezza, densità fondiaria e distacchi che il D.M. n. 1444/1968 pure imporrebbe.

6. All’udienza pubblica dell’11.11.2022, dopo ampia discussione, l’affare è stato trattenuto in decisione.

DIRITTO

7. Viene all’esame del Collegio l’impugnazione principale – promossa dalla “Ecocoldilana” s.r.l. – avverso la nota n. 194652 del 29.11.2021 con cui la competente direzione tecnica del Municipio I di Roma Capitale ha dichiarato l’inefficacia della SCIA alternativa al permesso di costruire presentata dalla ricorrente il 26.7.2021, nonché i motivi aggiunti avanzati nei confronti della determinazione dirigenziale emanata dal Dipartimento PAU di Roma Capitale il 23.3.2022, con la quale quell’ufficio ha rigettato la richiesta di rilascio di permesso di costruire parimenti introdotta dalla ricorrente.

Entrambe le istanze (SCIA alternativa al p.d.c. di cui al prot. N. CA/126322 del 26.7.2021 e istanza di p.d.c. prot. N. QI/2021/145272 del 10.8.2021) avevano ad oggetto il medesimo intervento edilizio, così sinteticamente descritto nella domanda di rilascio del titolo abilitativo espresso: “Intervento di demolizione e ricostruzione con ampliamento e cambio di destinazione d’uso di un edificio destinato ad albergo ai sensi della L.R. n. 7/2017”; mentre, nella relazione tecnica a corredo della segnalazione certificata, lo stesso viene più nel dettaglio illustrato, evincendosi come, per mezzo di esso, la ricorrente si sia proposta di: demolire il preesistente fabbricato di altezza metri 19,40; innalzarne, sull’area di sedime così risultante, uno nuovo per un’altezza pari a 29,52 metri; conseguire, per l’effetto, un incremento di superficie utile lordo del 20 percento e un aumento dall’attuale volumetria di 6685 mc. a 7283 mc.; mutare l’attuale destinazione d’uso, da turistico-ricettivo, a residenziale.

A fondamento della pretesa di parte ricorrente si situerebbe – secondo la prospettazione da essa avanzata – il disposto dell’art. 6 della L.R. Lazio n. 7/2017, a tenore del quale “1. Per il perseguimento di una o più delle finalità di cui all'articolo 1, previa acquisizione di idoneo titolo abilitativo di cui al D.P.R. n. 380/2001, sono sempre consentiti interventi di ristrutturazione edilizia o interventi di demolizione e ricostruzione con incremento fino a un massimo del 20 per cento della volumetria o della superficie lorda esistente (…) 2. Nell'ambito degli interventi di cui al comma 1 sono consentiti i cambi di destinazione d'uso nel rispetto delle destinazioni d'uso previste dagli strumenti urbanistici generali vigenti, indipendentemente dalle percentuali previste dagli strumenti urbanistici comunali per ogni singola funzione nonché dalle modalità di attuazione, dirette o indirette, e da altre prescrizioni previste dagli stessi. Sono, altresì, consentiti incondizionatamente i cambi all'interno della stessa categoria funzionale di cui all'articolo 23-ter del d.p.r. 380/2001 e successive modifiche”.

L’art. 1 della suddetta legge regionale, poi, abiliterebbe l’effettuazione degli interventi diretti con le modalità premiali sopra descritte (incremento fino al 20 percento della volumetria o SUL esistente e mutamento di destinazione d’uso), a condizione che, per mezzo di essi, siano perseguite una o più tra le finalità ivi indicate, tra le quali, ai fini di interesse dell’odierno affare, si individuano (lett. b), “incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente, favorire il recupero delle periferie, accompagnare i fenomeni legati alla diffusione di piccole attività commerciali, (…), promuovere e agevolare la riqualificazione delle aree urbane degradate e delle aree produttive, (…), con presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti nonché di complessi edilizi e di edifici in stato di degrado o di abbandono o dismessi o inutilizzati o in via di dismissione o da rilocalizzare”.

A parere della ricorrente, l’immobile in questione – acquisito nel dicembre 2020 “libero da persone e cose” – sarebbe in condizione di disuso quantomeno dal luglio 2020.

Inoltre, l’assenza di vincoli sul medesimo e il suo inserimento in un tessuto urbano che, pur non presentando caratteristiche di degrado, non conserverebbe più l’impronta architettonica originaria (proprio a seguito dei numerosi e profondi interventi di rigenerazione che, nel corso dei decenni, sarebbero stati apportati su diversi edifici insistenti nell’area, a partire da quello costruito in adiacenza ad esso), legittimerebbero il perseguimento delle finalità di cui all’art. 1, comma 1, lett. b) della L.R. Lazio n. 7/2017.

E, nel senso che non potrebbe opporsi all’intervento in questione, una restrizione del ventaglio delle finalità che la legge laziale si proporrebbe di conseguire (in particolare, subordinando le azioni di rigenerazione e riqualificazione urbana alla concomitante condizione di degrado strutturale dell’edificio e abbandono e dismissione del medesimo) militerebbe, a giudizio della ricorrente, il parere espresso dalla competente direzione della Regione Lazio proprio nei confronti di Roma Capitale, il quale chiarirebbe che “L’art. 6 può certamente essere applicato ad immobili che risultino inutilizzati, seppure non siano effettivamente degradati o fatiscenti dal punto di vista strutturale. L’art. 1, comma 1, lett. b), della l.r. 7/2017 elenca infatti, tra le finalità della legge, quella di<<promuovere e agevolare la riqualificazione […] di complessi edilizi e di edifici in stato di degrado o di abbandono o dismessi o inutilizzati o in via di dismissione o da rilocalizzar>>. Le condizioni di abbandono, dismissione o di inutilizzazione sono dunque alternative tra loro e, altresì, alternative a quelle di degrado strutturale dell’edificio. Del resto, il ventaglio di finalità che la rigenerazione e riqualificazione urbana intendono conseguire ha una certa ampiezza, e sicuramente comprende gli interventi volti a conferire un nuovo e diverso utilizzo a volumetrie esistenti ma prive di una utile funzione attiva”.

Di diverso avviso, invece, è Roma Capitale, a giudizio della quale, invece, non sussisterebbero i presupposti per la richiesta applicazione della normativa regionale premiale poiché, nel caso di specie, difetterebbero le finalità di rigenerazione urbana perseguibili alla luce della disciplina in questione.

Infatti, l’edificio oggetto dell’intervento proposto, non verserebbe in condizioni di degrado ma, al contrario, sarebbe ben conservato ed integrato nel contesto urbano circostante, rappresentante una delle aree più pregevoli della città.

Inoltre, esso non sarebbe neppure in stato di disuso, abbandono o dismissione, risultando tuttora attiva la destinazione alberghiera precedentemente impressagli ed essendo lo svolgimento della stessa solo momentaneamente sospeso.

8. Ciò premesso, ritiene il Collegio di doversi preliminarmente soffermare sull’impugnazione principale, considerandola in parte improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse.

Infatti, è innegabile come il progetto posto a base della segnalazione certificata inoltrata all’amministrazione municipale il 26.7.2021 sia in tutto e per tutto analogo a quello fatto oggetto dell’istanza di permesso di costruire avanzata al Dipartimento PAU di Roma Capitale il successivo 10 agosto.

In disparte le ragioni che abbiano indetto la ricorrente a presentare, dopo appena quindici giorni di distanza dall’inoltro telematico della SCIA, un’istanza di permesso di costruire per il medesimo intervento (ragioni alle quali accenna la stessa parte ricorrente a pag. 2 del gravame per motivi aggiunti), è innegabile che la successiva presentazione, per lo stesso identico progetto, della richiesta volta a conseguire un titolo diverso e dalla maggiore portata abilitante, non può che superare la precedente rendendola superflua e manifestando, nei fatti, l’intendimento del presentatore di rinunciare al percorso precedentemente seguito.

Ne consegue, pertanto, la sopravvenuta carenza di interesse di parte ricorrente a conseguire una pronuncia nel merito in ordine all’impugnazione della nota con cui il Municipio I di Roma Capitale ha dichiarato l’inefficacia della SCIA prot. N. CA/126322 del 26.7.2021, con eccezione del motivo di impugnazione sub II) del ricorso introduttivo spiccato nei confronti del parere espresso dalla Sovrintendenza Capitolina nel corso della conferenza di servizi del 13.10.2021, motivo peraltro integralmente riproposto sub VII) del gravame accessorio.

9. L’esame dei motivi aggiunti di ricorso porta all’attenzione del Collegio, pertanto, la determinazione dirigenziale rep. N. QI/308 del 23.3.2022 con cui il competente Dipartimento di Roma Capitale ha rigettato l’istanza volta al rilascio del permesso di costruire presentata dalla ricorrente.

Il provvedimento oggetto di impugnazione si presenta pluristrutturato, in quanto le ragioni poste a fondamento del diniego sono molteplici e, nel dettaglio:

- l’intervento edilizio in questione viene inquadrato – contrariamente a quanto dedotto dalla ricorrente – nella categoria della “nuova costruzione” di cui all’art. 3, comma 1, lett. e), del d.P.R. n. 380/2001, quale trasformazione urbanistico edilizia del territorio e, in particolare, il medesimo viene ascritto alla tipologia “demolizione e ricostruzione” con incremento di SUL e di volume ed ampliamento di volume all’esterno della sagoma esistente, intervento che, ove interessi (come nel caso di specie incontrovertibilmente è) immobili ubicati nelle zone omogenee A di cui al D.M. n. 1444/1968, o in zone a queste assimilabili in base alla normativa regionale e ai piani urbanistici comunali, nei centri e nuclei storici consolidati e negli ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico, sarebbe da escludere si tratti di ristrutturazione edilizia, non comportando esso il rispetto della sagoma, del prospetto, del sedime e delle caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente;

- l’immobile non possiederebbe i requisiti di degrado e abbandono previsti dall’art. 1 della L.R. Lazio n. 7/2017 e, comunque, non sussisterebbero le condizioni richieste dagli artt. 1 e 6 della suddetta legge per consentire interventi di riqualificazione urbana quali quelli che la ricorrente si propone di attuare, anche alla luce del parere sfavorevole espresso dalla Sovrintendenza Capitolina nel corso della conferenza di servizi allo scopo indetto;

- la densità edilizia e l’altezza che l’edificio andrebbe ad assumere post operam sarebbero abbondantemente superiori ai limiti inderogabili imposti dall’art. 7 del D.M. n. 1444/1968 e dall’art. 41-quinquies della l. n. 1151/1942.

Occorre adesso valutare, quindi, la sostenibilità dei motivi di rigetto addotti da Roma Capitale all’istanza di permesso di costruire avanzata dalla “Ecocoldilana” s.r.l. alla luce dei motivi aggiunti di ricorso mossi dalla medesima.

Nel far ciò, tuttavia, ritiene il Collegio di spendere alcune considerazioni preliminari per correttamente inquadrare il contesto normativo alla luce del quale si svolge la vicenda oggetto di attenzione.

L’art. 5, comma 9, del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70 – rubricato “costruzioni private” – stabilisce che: “Al fine di incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente nonché di promuovere e agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate con presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti nonché di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare, tenuto conto anche della necessità di favorire lo sviluppo dell'efficienza energetica e delle fonti rinnovabili, le Regioni approvano entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto specifiche leggi per incentivare tali azioni anche con interventi di demolizione e ricostruzione che prevedano: a) il riconoscimento di una volumetria aggiuntiva rispetto a quella preesistente come misura premiale; b) la delocalizzazione delle relative volumetrie in area o aree diverse; c) l'ammissibilità delle modifiche di destinazione d'uso, purché si tratti di destinazioni tra loro compatibili o complementari; d) le modifiche della sagoma necessarie per l'armonizzazione architettonica con gli organismi edilizi esistenti”.

Recentemente pronunciatasi sulla disposizione in parola, la Corte Costituzionale (sent. 28 gennaio 2022, n. 24) ha precisato che essa “affida alle Regioni il compito di approvare leggi per incentivare, tra l'altro, la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente, anche mediante la previsione del riconoscimento di una volumetria aggiuntiva come misura premiale. Ciò purché gli interventi non siano riferiti a edifici abusivi, siti nei centri storici o in aree di inedificabilità assoluta, con esclusione dei soli edifici per i quali sia stato rilasciato il titolo abilitativo edilizio in sanatoria: nozione, quest'ultima, da interpretare in senso restrittivo, in coerenza con la terminologia adoperata dal legislatore e con la ratio della normativa”.

Già in precedenza, il giudice amministrativo d’appello aveva avuto modo di chiarire che “l'art. 5, 9° comma, D.L. 13 maggio 2011 n. 70, convertito, con modificazioni, in L. 12 luglio 2011 n. 106, il quale consente alle regioni di prevedere una volumetria aggiuntiva di quella precedente, è disposizione di carattere eccezionale e derogatoria e pertanto di stretta interpretazione”, con la conseguenza che “i benefici da esso previsti sono ammessi solo se rivolti alla razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente o a promuovere o agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate” (così Cons. St., sez. IV, n. 1828/2017, ma vedasi anche, in senso ancor più esplicito, Cons. St., sez. IV, n. 4088/2015, peraltro citata anche da parte resistente, secondo la quale “Il legislatore, sia pure in vista anche di un rilancio delle attività economiche inerenti all'edilizia, non ha in sostanza inteso "liberalizzare" e "generalizzare" ogni intervento edilizio incrementativo degli edifici esistenti (consistente in demolizione e ricostruzione o sia pure in solo ampliamento), collegando l'obiettivo di "rilancio" dell'attività edilizia a specifiche e ineludibili finalità relative all'interesse, di pari rilievo e preminenza, anche costituzionale, ad un miglioramento del tessuto urbanistico, cui sono chiaramente correlate le due alternative finalità/condizioni di ammissibilità dell'intervento ("razionalizzazione del patrimonio edilizio", "riqualificazione dell'area urbana degradata")”.

Dall’esame dei precedenti sopra citati può, quindi, pervenirsi ad una prima considerazione alla quale il Collegio intende attenersi: l’art. 5, comma 9, del d.l. n. 70/2011 – conv., con mod., in l. n. 106/2011 – lungi dal prevedere una completa e generalizzata “liberalizzazione” di interventi di demolizione e ricostruzione degli edifici esistenti con riconoscimento di una volumetria aggiuntiva e modifica delle destinazioni d’uso preesistenti, ha inteso consentire interventi incrementativi del tessuto edilizio esistente all’esclusivo fine di perseguire gli scopi da esso individuati, ossia la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente nonché la riqualificazione di aree urbane degradate con funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti o edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione, con onere a carico del proponente di documentare l’esigenza di razionalizzare il patrimonio edilizio o riqualificare l’area urbana degradata sulla quale insiste il manufatto.

In altre parole, non la semplice volontà di riqualificare un edificio a destinazione non residenziale dismesso o in via di dismissione può sorreggere un intervento incrementativo edilizio da realizzare con ampliamento di volumetria e superficie utile, essendo imprescindibile, al fine di conseguire la premialità richiesta, il perseguimento del duplice fine alternativamente richiesto dalla norma, ossia la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente o la riqualificazione di un’area urbana degradata.

E tanto in ragione del carattere eccezionale e derogatorio della disposizione in parola la quale, integrando una norma di favore, va definita come norma ‘eccezionale’, in quanto diretta a regolare in termini diversi un minor numero di ipotesi rispetto a quelle ‘ordinarie’, di talché la medesima non è suscettibile di interpretazione in senso estensivo (così anche Cons. St., sez. IV, n. 1767/2014).

L’art. 5, comma 9, del d.l. n. 70/2011 ha ricevuto attuazione, nell’ambito regionale laziale, con la L.R. 18 luglio 2017, n. 7 la quale, all’art. 1, detta disposizioni finalizzate al perseguimento, attraverso la realizzazione degli interventi previsti dalla medesima legge, di una o più delle sette finalità elencate nelle lettere da a) a g) del comma 1 dello stesso articolo.

Di particolare rilievo, ai fini del decidere, è la finalità individuata dalla lett. b) della disposizione in parola, la quale consente di realizzare uno degli interventi previsti dalla legge per “incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente, favorire il recupero delle periferie, accompagnare i fenomeni legati alla diffusione di piccole attività commerciali, anche dedicate alla vendita dei prodotti provenienti dalla filiera corta, promuovere e agevolare la riqualificazione delle aree urbane degradate e delle aree produttive, limitatamente a quanto previsto dall'articolo 4, con presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti nonché di complessi edilizi e di edifici in stato di degrado o di abbandono o dismessi o inutilizzati o in via di dismissione o da rilocalizzare”.

Focalizzando ancor più l’ambito di indagine, si può affermare che la legge regionale abbia subordinato l’attuazione degli interventi edilizi da essa previsti – tra cui quello che si propone di realizzare la ricorrente – al fine di: a) razionalizzare il patrimonio edilizio esistente o b) promuovere e agevolare la riqualificazione delle aree urbane degradate e delle aree produttive con presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti nonché di complessi edilizi e di edifici in stato di degrado o di abbandono o dismessi o inutilizzati o in via di dismissione o da rilocalizzare.

Sotto questo profilo, pare al Collegio potersi estendere alla normativa regionale in parte qua evocata le conclusioni cui già si è pervenuto riguardo alla normativa nazionale della quale la prima costituisce attuazione, e quindi l’esigenza che ogni intervento edilizio premiale sia subordinato al perseguimento di alcune finalità di pubblico interesse specificamente individuate dalla legge e in particolare, per quanto riguarda il caso di specie, alla razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente e alla riqualificazione delle aree urbane degradate.

Con la duplice conseguenza che, quindi: a) va esclusa ogni interpretazione estensiva della stessa che renda ammissibili interventi edilizi del tipo di quelli consentiti dalla legge rivolti ad edifici privi di quei caratteri di degrado, abbandono, dismissione, inutilizzo o in via di dismissione o rilocalizzazione che la norma pretende per legittimare il compimento di siffatti interventi incentivanti; b) gli interventi in questione, in tanto possono beneficiare di detta legislazione di favore in quanto, comunque, abbiano ad oggetto edifici insistenti in aree urbane degradate e, in assenza di detto presupposto, l’intervento non può essere consentito.

E’ pure vero che, sia l’art. 5, comma 9, del d.l. n. 70/2011, che l’art. 1, comma 1, lett. b) della L.R. Lazio n. 7/2017, non prevedono un legame di concatenazione tra la riqualificazione delle aree degradate e quella degli edifici in stato di degrado ovvero di abbandono, in modo da ritenere che il recupero di questi ultimi debba necessariamente rappresentare un posterius rispetto alla riqualificazione complessiva di un’area in quanto degradata, costituente il prius (in tema, vedasi TAR Campania – Salerno, sez. I, n. 617/2014).

Ma è pur vero che proprio tale dato rafforza l’esegesi sopra svolta, nel senso che non occorre la previa riqualificazione dell’area su cui insiste l’edificio in stato di abbandono per consentire su di esso interventi attuativi della legislazione derogatoria, ma è comunque indispensabile che lo stesso insista su un’area degradata e abbisognevole di riqualificazione.

Ad ulteriore riprova della correttezza dell’ipotesi interpretativa qui sostenuta si colloca l’art. 3 della legge regionale in questione, il quale – intitolato “ambiti territoriali di riqualificazione e recupero edilizio” – affida ai consigli comunali il compito di individuare, anche su proposta dei privati, ambiti territoriali urbani nei quali, in ragione delle finalità di cui all'articolo 1, sono consentiti, previa acquisizione di idoneo e valido titolo abilitativo, interventi di ristrutturazione edilizia e urbanistica o interventi di demolizione e ricostruzione degli edifici esistenti con il riconoscimento di una volumetria o di una superficie lorda aggiuntive rispetto a quelle preesistenti nella misura massima del 30 per cento, consentendo altresì il mutamento delle destinazioni d'uso degli edifici tra le destinazioni previste dallo strumento urbanistico generale vigente ovvero il mutamento delle destinazioni d'uso tra quelle compatibili o complementari all'interno delle categorie funzionali di cui al successivo comma 6.

Sono, pertanto, i comuni a dover individuare gli ambiti urbani che necessitano di razionalizzazioni del patrimonio edilizio esistente o di riqualificazione in quanto ricomprendenti aree urbane degradate.

Completano la trama normativa in questione l’art. 6 e l’art. 8 della L.R. Lazio n. 7/2017.

La prima consente interventi edilizi diretti di ristrutturazione edilizia o di demolizione e ricostruzione degli edifici esistenti riconoscendo una volumetria aggiuntiva ovvero un incremento premiale di SUL fino ad un massimo del 20 percento dell’esistente, nonché ancora il cambio di destinazione d’uso all’interno delle destinazioni previste dagli strumenti urbanistici generali vigenti purché essi siano diretti al perseguimento di una o più delle finalità di cui all’art. 1 della sopra indicata legge regionale.

La seconda, invece, al comma 3, abilita la deroga alle densità fondiarie di cui all’art. 7 del D.M. n. 1444/1968 e alle altezze massime consentite dall’art. 8 del medesimo D.M. alla duplice condizione che: si tratti di ricostruzione di edifici demoliti; l’intervento da attuare sia volto a realizzare le premialità e gli incrementi previsti dalla medesima legge.

Le due disposizioni, in ogni modo, condividono il medesimo presupposto, costituito dalla necessità di conseguire uno dei fini individuati dall’art. 1 della legge regionale tra cui, per quanto rileva nel caso di specie, si situa la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente o la riqualificazione di aree urbane degradate.

Tirando le fila di quanto sopra esposto, pare al Collegio potersi desumere la seguente affermazione di principio, alla quale attenersi nella risoluzione del contenzioso di cui trattasi: l’art. 1 della L.R. Lazio n. 7/2017 – al pari dell’art. 5, comma 9, del d.l. n. 70/2011, di cui la prima costituisce attuazione – nel consentire interventi di razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente, anche mediante la previsione del riconoscimento di una volumetria aggiuntiva quale misura premiale – rappresenta una normativa di carattere eccezionale e derogatorio la quale, pertanto, non è suscettibile di interpretazione estensiva al di fuori dei casi e delle ipotesi in esse strettamente contemplate.

L’art. 1, comma 1, lett. b) della suddetta legge regionale, nel consentire gli interventi previsti dalla medesima legge, subordina l’assentibilità degli stessi al conseguimento delle finalità di interesse pubblico da essa contemplate.

In particolare, la medesima norma, in tanto permette di intervenire su edifici in stato di degrado o di abbandono o dismessi o inutilizzati o in via di dismissione o da rilocalizzare in quanto, attraverso di essi, si pervenga a concorrere alla riqualificazione di aree urbane degradate o di aree produttive, con l’esclusione di ogni generalizzata “liberalizzazione” degli interventi edilizi ampliativi dell’esistente ove non connessi al perseguimento delle finalità previste dalla legge, tra le quali rientra la riqualificazione di contesti urbani degradati, la cui individuazione è rimessa, dall’art. 3 della legge regionale in parola, ai consigli comunali.

10.1. Così delineato il quadro normativo di riferimento, occorre ora applicare al caso oggetto di disamina le coordinate ermeneutiche tratte da esso, per come sopra sintetizzate, giungendo alla conclusione, che può già preannunciarsi, della completa inammissibilità e infondatezza del ricorso per motivi aggiunti promosso dall’odierna ricorrente.

10.2. Inammissibile per carenza di interesse è il quarto motivo aggiunto, imperniato sulla contestazione dell’illogicità dell’operato dell’amministrazione la quale avrebbe, dapprima, ammesso l’intervento proposto alla presentazione di SCIA sostitutiva al permesso di costruire per poi, incongruamente, escludere tale titolo edilizio e concentrare l’attenzione sul diniego di permesso di costruire, ascrivendo il progetto proposto al novero della nuova costruzione (necessitante di titolo abilitativo espresso) in luogo della ristrutturazione edilizia assentibile anche in forma tacita.

Non si coglie, infatti, la ragione per cui la ricorrente, pur ritenendo che l’intervento edilizio che si proponeva di realizzare presentasse i caratteri della c.d. ristrutturazione edilizia ‘leggera’ sottoponibile a SCIA sostitutiva di permesso di costruire, abbia inteso comunque, per il medesimo progetto, avanzare una successiva istanza di permesso di costruire la cui necessità, adesso, proprio la ricorrente contesta, quasi a volersi riservare la facoltà di continuare a ritenere assentito per silentium l’intervento edilizio proposto.

Pertanto, la successiva proposizione – per il medesimo progetto già oggetto di SCIA alternativa al p.d.c. – di istanza volta al rilascio del titolo abilitativo espresso comporta l’abbandono, per facta concludentia, della segnalazione certificata inoltrata il 26.7.2021 e, conseguentemente, il difetto di interesse dell’odierna ricorrente in ordine a qualunque censura volta, da un lato, a contestare la scelta dell’amministrazione di concludere, con un esplicito provvedimento di diniego, il procedimento avviato con l’istanza di rilascio del permesso di costruire del 10.8.2021 e, dall’altro, la qualificazione dell’intervento proposto nei termini di una ristrutturazione edilizia con demolizione e ricostruzione di edifici esistenti (giusta applicazione del testo dell’art. 3, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 380/2001, per come risultante a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 10, comma 1, lett. b), n. 2 del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, conv., con mod., in l. 11 settembre 2020, n. 120), anziché di una nuova costruzione, come sostenuto dall’amministrazione resistente nel diniego di permesso di costruire impugnato con motivi aggiunti.

10.3.1. Per ragioni di priorità logica, si passa adesso ad illustrare l’infondatezza degli ultimi due motivi aggiunti di ricorso, ossia i numeri VI) e VII), con i quali la ricorrente contesta la valutazione, operata da Roma Capitale, in ordine all’insussistenza dei presupposti per l’applicazione della legislazione premiale contenuti negli artt. 1 e 6 della L. R. Lazio n. 17/2017, essendo essi i motivi portanti dell’intero gravame.

Innanzitutto, sostiene parte ricorrente che l’amministrazione avrebbe errato nel non ritenere l’edificio essere in stato di abbandono ovvero di disuso, stante la cessazione, almeno a partire dal luglio 2020, di ogni attività alberghiera precedentemente esercitata sul medesimo e l’acquisto dello stesso da parte della medesima, avvenuto nel dicembre 2020, “libero da persone e cose”.

La doglianza è priva di pregio.

Ora, in disparte la considerazione che l’apposizione ad un atto di rogito notarile della formula “libero da persone e cose” – ove non la si voglia considerare una mera clausola di stile – appare comunque una descrizione sintetica dello stato dell’immobile oggetto della compravendita inidonea ad attestare la condizione di abbandono, disuso o dismissione che l’art. 1 della legge regionale sopra citata impone come condizione per l’accesso all’incremento edilizio invocato.

Viceversa, l’amministrazione comunale ha puntualmente dato conto dell’insussistenza dello stato di abbandono e disuso dell’immobile il quale, viceversa, si trova in una situazione di sola momentanea inadibizione all’uso cui esso è destinato, ossia all’esercizio dell’attività ricettivo-turistica.

Infatti, come pure attestato nella produzione di parte ricorrente, la medesima sottoscriveva un contratto preliminare di acquisto dell’edificio nell’aprile 2019 allorché l’attività alberghiera era ancora in corso di svolgimento.

Nel successivo mese di dicembre 2019, la promittente venditrice (“Coldilana” s.r.l., integralmente partecipata dalla ricorrente) richiedeva la voltura della licenza alberghiera, poi negata a seguito del parere sfavorevole reso dall’ASL competente nel luglio 2020.

Le circostanze sopra rammentate attestano come l’odierna ricorrente, sin dalla primavera 2019, fosse ben consapevole della destinazione dell’immobile e dell’assenza in esso di quelle caratteristiche (abbandono, dismissione, degrado, ecc.) che, tanto l’art. 5, comma 9, del d.l. n. 70/2011, quanto l’art. 1 della L. R. Lazio n. 7/2017, impongono per assentire alla realizzazione di interventi incrementali quali quelli prospettati dalla medesima nell’istanza di permesso di costruire del 10.8.2021.

Ma a comprovare incontestabilmente la condizione di temporanea sospensione dell’attività ricettiva in cui versa l’edificio di proprietà della ricorrente (e non già di definitiva dismissione) è il parere rilasciato dall’ASL “Roma 1” il 14.7.2020 alla promittente venditrice “Coldilana” s.r.l. (integralmente partecipata, si ribadisce, dall’odierna ricorrente).

Esso, infatti, oltre ad essere stato reso non a seguito dell’acclarata inadeguatezza dei locali allo svolgimento dell’attività alberghiera quanto, piuttosto, a causa della mancata presentazione, da parte della richiedente, delle richieste di integrazioni documentali avanzate e sollecitate dall’Azienda sanitaria, aveva ad oggetto l’autorizzazione alla destinazione ad attività ricettiva dell’immobile in deroga all’art. 65 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81.

La norma in questione attiene alla possibilità, per la competente autorità di vigilanza, di autorizzare la destinazione al lavoro di locali chiusi sotterranei o semisotterranei, e ciò in deroga al generale divieto di adibizione al lavoro di tali luoghi posto dalla medesima disposizione.

In altre parole, la condizione di momentaneo inutilizzo dell’edificio all’uso cui lo stesso è destinato è dipesa non certo dal parere sfavorevole dell’ASL il quale, come evidenziato, non concerne lo stato di generale abbandono dell’immobile quanto, piuttosto, l’impossibilità di derogare al divieto di destinare al lavoro i locali chiusi sotterranei o semisotterranei dello stesso, impossibilità peraltro non accertata in fatto, ma dipesa esclusivamente dal mancato riscontro alla richiesta di integrazioni avanzata dall’autorità sanitaria competente.

Lo stato di abbandono dell’immobile è imputabile esclusivamente alla scelta della ricorrente la quale, presumibilmente ritenendo non più profittevole l’esercizio dell’attività alberghiera sull’immobile, ha ritenuto di intraprendere sul medesimo impegnativi lavori di riqualificazione onde destinarlo ad uso residenziale.

Scelta che, di per sé, non sarebbe certo censurabile, se non fosse che l’attività edilizia che la ricorrente si proponeva di svolgere sull’immobile – demolendo il medesimo e riedificandolo con un non indifferente aumento di cubatura ed altezza – poggiava su un presupposto – la condizione di abbandono e inutilizzo dell’edificio in argomento – la cui insussistenza è stata accertata, con un sufficiente grado di attendibilità, dall’amministrazione capitolina, ed in relazione alla quale l’esame del restante compendio documentale versato in atti lascia emergere la perdurante temporaneità dello stato di disuso dell’immobile, potenzialmente superabile anche adesso, sempre che la ricorrente soddisfi le richieste di integrazione documentale ritenute occorrenti dall’ASL per rendere parere favorevole all’utilizzo dei locali seminterrati dell’immobile.

Si badi bene anche come la richiesta di voltura per l’esercizio dell’attività alberghiera sia stata denegata non per l’intero edificio, ma solamente per i locali sotterranei dello stesso.

Rimane ovvio così che, non risultando mai dichiarata all’amministrazione la cessazione dell’attività di albergo e non essendo mai stata restituita la licenza di esercizio, permaneva integra la possibilità, nel momento in cui il progetto è stato presentato, di ritenere l’immobile utilizzabile in conformità ad un titolo commerciale legittimamente detenuto con esclusione, quindi, dei caratteri di degrado, dismissione e inutilizzazione cui la legge regionale subordina l’intervento premiale invocato.

Né si comprende quale rilievo possa avere, nel caso di specie, il parere reso il 12.7.2021 dalla Regione Lazio in merito all’applicabilità dell’art. 6 della legge regionale n. 7/2017.

Infatti – in disparte la considerazione, fin troppo scontata, secondo cui un parere o una circolare rilevano esclusivamente quali atti interni all’amministrazione che li ha emanati, non potendo certo assurgere al rango di norme di interpretazione autentica la cui adozione è rimessa solo all’organo che ha emanato l’atto legislativo della cui esegesi si controverte e solo attraverso le medesime modalità previste per l’assunzione del testo normativo interpretando – dirimente appare l’osservazione che, per le ragioni sopra illustrate, nessuna delle condizioni di abbandono, dismissione o inutilizzazione (asseritamente ritenute dalla Regione Lazio, con la nota di cui sopra, alternative tra di loro e alternative anche alla condizione di degrado strutturale dell’edificio, al fine di legittimare gli interventi di riqualificazione previsti dalla legge regionale n. 7/2017) risulta integrata nella fattispecie essendo, si ribadisce, l’attività alberghiera sull’immobile per cui è causa non definitivamente cessata, ma solo temporaneamente sospesa per scelta della ricorrente, e riattivabile pertanto in qualsiasi momento, purché siano superate le carenze documentali lamentate dall’ASL con il parere sfavorevole sopra menzionato.

E tanto pare sufficiente al Collegio per considerare pienamente legittimo il diniego di rilascio del permesso di costruire avanzato per realizzare un intervento edilizio incrementale sulla scorta degli artt. 5, comma 9, del d.l. n. 70/2011 e degli artt. 1 e 6 della L.R. Lazio n. 7/2017.

10.3.2. Per quanto concerne, invece, le censure mosse avverso il parere contrario all’intervento reso dalla Sovrintendenza Capitolina, neanch’esse appaiono passibili di positiva delibazione.

Con esso, infatti, l’ufficio in parola ha ritenuto l’edificio di proprietà della ricorrente – ricadente all’interno della Carta della Qualità – “un esempio formalmente coerente delle morfologie urbane citate e perfettamente integrato nel tessuto urbano del quartiere”, ritenendo che non sussistessero le caratteristiche previste dagli artt. 1 e 6 della L. R. Lazio n. 7/2017, “essendo l’area tra le più pregevoli della città e l’edificio in buono stato di conservazione”.

Il parere in questione risulta, a giudizio del Collegio, congruamente ed adeguatamente motivato con riferimento non solo alle caratteristiche precipue dell’edificio, ma anche alle relazioni che il medesimo intrattiene con il tessuto edilizio dell’area su cui insiste, attestandone il coerente inserimento nel contesto urbano della zona, obiettivamente una delle più pregevoli della Capitale.

Ma, cosa che più conta, il parere manifestato dal competente ufficio capitolino appare obiettivamente giustificato alla luce dell’abbondante documentazione fotografica versata in atti da entrambe le parti del giudizio, la quale attesta, oltre ogni ragionevole dubbio, come il fabbricato in questione si trovi in perfetto stato di conservazione e non presenti alcuna condizione di degrado o abbandono strutturale tale da richiedere il suo rifacimento al fine superarne lo stato di fatiscenza.

Pertanto si ritiene che, formulando il proprio giudizio su un intervento edilizio gravante su un immobile ricompreso nella Carta della Qualità, la Sovrintendenza Capitolina abbia esercitato correttamente il proprio ruolo, fornendo adeguata motivazione al parere ostativo rilasciato, sicché al Collegio altro non rimane che fare applicazione del costante insegnamento giurisprudenziale secondo cui “tale forma di valutazione costituisce espressione di discrezionalità tecnica, rispetto alla quale il sindacato del giudice amministrativo risulta strettamente limitato al caso in cui siano rilevati vizi di illogicità manifesta, irragionevolezza, arbitrarietà e travisamento dei fatti” (così, ex multis, C.g.a., sez. giur. n. 749/2022), vizi che, per le ragioni sopra esposte, non si ritiene sussistano nel caso di specie.

Quanto, poi, alla lamentata consumazione del potere della Sovrintendenza di esprimere il parere decorsi sessanta giorni dalla richiesta, il Collegio concorda con il precedente giurisprudenziale invocato, sul punto, dalla difesa Capitolina (ossia Cons. St., sez. IV, n. 5346/2021), il quale appare pienamente pertinente al caso di specie, avendo statuito che “la tesi propugnata dall'appellante secondo cui la mancata comunicazione del parere della Soprintendenza, nel termine prescritto dalla NTA del PRG equivalga ad un <<parere favorevole>>, non ha infatti alcun riscontro né nella disciplina edilizia vigente nel Comune di Roma Capitale, né nella L. n. 241 del 1990 (…). In primo luogo, l'art. 16, comma 10, delle NTA del PRG - relativamente agli interventi su beni che, come quello in esame, siano inseriti nella "Carta per la qualità" come opere di rilevante interesse architettonico e urbano - si limita a prevedere che l'approvazione dei relativi progetti <<è subordinata al parere favorevole della Sovrintendenza comunale che si esprime entro 60 giorni dalla richiesta formulata dal responsabile del procedimento di abilitazione; nei casi di progetti da abilitarsi tramite DIA, il parere è acquisito dal soggetto attuatore preventivamente alla presentazione della DIA e ne correda gli elaborati>> (…). Né una simile disposizione può essere rinvenuta nell'art. 20 della L. n. 241 del 1990 poiché esso non trova applicazione ai provvedimenti che, come quelli in esame, sono volti alla tutela di interessi <<sensibili>>. In tale senso, il comma 4 stabilisce espressamente che <<Le disposizioni del presente articolo non si applicano agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, l'ambiente, la tutela dal rischio idrogeologico, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza, l'immigrazione, l'asilo e la cittadinanza, la salute e la pubblica incolumità, ai casi in cui la normativa comunitaria impone l'adozione di provvedimenti amministrativi formali, ai casi in cui la legge qualifica il silenzio dell'amministrazione come rigetto dell'istanza, nonché agli atti e procedimenti individuati con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per la funzione pubblica, di concerto con i Ministri competenti>>”.

Pertanto, anche tale doglianza non merita accoglimento.

10.4.1. Occorre, infine, scrutinare il motivo di ricorso (sub V dell’atto di motivi aggiunti) con cui si contesta l’asserita incompatibilità del progetto con l’art. 7 del D.M. n. 1444/1968, per superamento del limite di densità edilizia, e con l’art. 41-quinquies della l. n. 1150/1942, per superamento del limite massimo di altezza ammissibile per interventi in modalità diretta.

In estrema sintesi, con esso parte ricorrente ritiene di superare il rilievo contenuto nel provvedimento impugnato ritenendo che i limiti recati da entrambe le norme si riferirebbero solamente alle nuove costruzioni e non agli interventi di ristrutturazione edilizia quale quello proposto il quale, concretando una ricostruzione di un edificio demolito, legittimerebbe, per la realizzazione delle premialità e degli incrementi previsti dalla legge regionale n. 7/2017, la deroga – secondo quanto previsto dall’art. 2-bis del d.P.R. n. 380/2001 – alle densità fondiarie e alle altezze massime consentite dalla legislazione statale, come previsto dall’art. 8, comma 3 della legge regionale citata.

Neppure tale argomento coglie nel segno.

La deroga recata dalla normativa regionale laziale, infatti, resta al di fuori del contenzioso in esame, e ciò in quanto la norma riferisce la deroga in questione ai soli casi in cui il progetto riguarda solamente “la ricostruzione degli edifici demoliti” e non ai casi, ben diversi, di demolizione e ricostruzione, quale quello oggetto del presente gravame.

La natura eccezionale e derogatoria della norma in questione - già ampiamente illustrata in precedenza – impone l’esigenza di rispettare un principio di stretta interpretazione, limitandone l’ambito applicativo alla sola ipotesi, ivi specificamente prevista, di ricostruzione di edifici demoliti, senza includere nel suo perimetro applicativo anche la totalmente diversa ipotesi della demolizione e successiva ricostruzione di un fabbricato – quale quello per cui è causa – in perfette condizioni statiche.

Né al fine di superare detta esegesi tornerebbe utile richiamare l’art.1, comma 271 della legge n. 190/2014, secondo la quale “Le previsioni e le agevolazioni previste dall'articolo 5, commi 9 e 14, del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 2011, n. 106, si interpretano nel senso che le agevolazioni incentivanti previste in detta norma prevalgono sulle normative di piano regolatore generale, anche relative a piani particolareggiati o attuativi, fermi i limiti di cui all'articolo 5, comma 11, secondo periodo, del citato decreto-legge n. 70 del 2011”. Infatti, detta norma di interpretazione autentica (che, laddove richiama i commi 9 e 14 dell’art. 5 del d.l. n. 70/2011, si riferisce agli interventi che beneficiano del riconoscimento di una volumetria aggiuntiva premiale ovvero della possibilità di mutamenti di destinazione d’uso ovvero della possibilità di modificare la sagoma) dispone che detti benefici prevalgano sulla disciplina pianificatoria generale o attuativa, “fermi restando i limiti di cui all’articolo cinque, comma 11, secondo periodo” e cioè fermo restando “il rispetto degli standard urbanistici e delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia”.

Dunque la legislazione statale, rispetto alla quale quella regionale ha natura attuativa, lascia integra la disciplina degli standard urbanistici dettata dal D.M. n. 1444/1968 la quale, come noto, impone il rispetto, fra l’altro, dei limiti di densità fondiaria e di altezza che il provvedimento impugnato ritiene violati.

Anche l’esame della giurisprudenza più qualificata conferma tale impostazione.

Come statuito dal giudice amministrativo d’appello “la Sezione ha già avuto modo di chiarire (cfr. in tal senso Cons. St., IV, 11 aprile 2014 n. 1767; id., 1 settembre 2015 n. 4088), tenendo conto della natura eccezionale e derogatoria della disposizione (quindi di stretta interpretazione) e della sua costruzione sintattica, come l'art. 5, co. 9 del D.L. n. 70 del 2011 vada letto nel senso che i benefici da esso recati sono ammessi solo se rivolti alla razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente o a promuovere o agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate e tali condizioni devono sussistere per tutti gli interventi edilizi, di natura sia residenziale, sia non residenziale (…); non giova alla tesi attorea neppure l'art. 1, co 271 della L. n. 190 del 2014, in quanto tal norma impone di interpretare il contenuto dell'art. 5, commi 9 e 14 del D.L. n. 70 del 2011 nel senso che prevale sì, tranne i casi ex co. 11, II per., su tutti gli strumenti urbanistici generali, particolareggiati o attuativi, ma pur sempre nella constatazione, dianzi osservata che lo stesso art. 5 D.L. n. 70 del 2011 costituisce una norma di favore eccezionale (essendo diretta a regolare in termini diversi un minor numero di ipotesi rispetto a quelle ordinarie) e non è comunque suscettibile di applicazioni oltre gli scopi cui è preordinata, donde l'assenza di sua prevalenza sulle regole che fissano standard o criteri inderogabili, tra cui il D.M. n. 1444 del 1968” (così Cons. St., sez. IV, sent. n. 1828/2017).

Non appare utile neppure invocare, come fatto dalla difesa di parte ricorrente, un’interpretazione meramente letterale dell’art. 7 del D.M. n. 1444/1968 nella parte in cui essa statuisce che “per le eventuali nuove costruzioni ammesse, la densità fondiaria non deve superare il 50% delle densità fondiaria media della zona e, in nessun caso i 5mc/mq”, mentre nessun limite risulterebbe posto agli interventi di ristrutturazione edilizia, salvo il mantenimento della densità preesistente.

E’ vero che la norma citata contenga tale previsione, ma è pur vero che di essa non ne sia predicabile una lettura riduttiva e avulsa dalle evoluzioni del contesto normativo di riferimento quale quella fattane da parte ricorrente.

All’epoca dell’adozione del D.M. n. 1444/1968, infatti, le evoluzioni dell’istituto della ristrutturazione edilizia che hanno condotto alla conformazione da esso attualmente assunta erano ben lungi dal prevedersi.

Difatti, per effetto delle modifiche da ultimo introdotte dall’art. 10, comma 1, del d.l. n. 76/2020, è stata ricondotta, nel novero dell’intervento edilizio in parola, anche la possibilità – nei soli casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali – di demolire e ricostruire edifici preesistenti con incrementi di volumetria per promuovere interventi di rigenerazione urbana.

L’opportunità da ultimo consentita confligge con una lettura strettamente letterale dell’art. 7 D.M. n. 1444/1968 quale quella propugnata da parte ricorrente, essendo illogico continuare a ritenere soddisfatto il rispetto del limite di densità edilizia previsto per interventi meramente conservativi laddove il mutato quadro normativo consente, attraverso una ristrutturazione edilizia, di pervenire a non secondari incrementi di volumetria dell’esistente e al mutamento della sua destinazione d’uso.

Conforta tale interpretazione anche la lettura di altra norma contenuta nel D.M. n. 1444/1968, di tenore del tutto analogo a quella in questione.

Si allude all’art. 9 del citato decreto il quale con riguardo ad immobili siti in zona “A” – quale è quello per cui è causa – impone che gli interventi di risanamento conservativo e di ristrutturazione debbano rispettare limiti di distanza tra fabbricati “non inferiori a quelli intercorrenti tra i volumi preesistenti”.

Circostanza, questa, alla quale non è riferibile il caso di specie, posto che l’intervento in questione – recante un ampliamento di volumetria dagli attuali 6.685 mc. a 7.283 mc., un innalzamento da metri 19,40 a 29,52 e, infine, un mutamento di destinazione d’uso da turistico ricettivo a residenziale – non presenta carattere conservativo dell’esistente ma introduce un significativo mutamento del tessuto edilizio e urbanistico dell’area.

Giova precisare come, per un’ipotesi afferente all’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, il giudice amministrativo d’appello così si sia espresso: “In materia edilizia va precisato che il regime delle distanze, che è valido per le nuove costruzioni, deve essere rispettato anche nel caso in cui vengano costruite opere consistenti in sopraelevazioni”.

Osservazione, questa, che appare al Collegio pienamente aderente anche al caso di specie, laddove l’intervento proposto – comportante anche una sopraelevazione – non è logicamente riconducibile ad una lettura riduzionistica della norma in questione – l’art. 7 del D.M. n. 1444/1968 – ammissibile allorché la densità territoriale poteva essere variata solo per mezzo di nuove costruzioni e non più predicabile nel presente contesto normativo, nel quale anche un intervento di ristrutturazione edilizia può, lungi dal conservare l’esistente, introdurre una concentrazione urbana prima non presente.

10.4.2. Infine, con riguardo alla dedotta non applicabilità al progetto in questione del limite di altezza di 25 metri recato dall’art. 41-quinquies della l. n. 1150/1942, la censura non merita accoglimento.

La tesi secondo cui la norma in parola trovi applicazione solamente alle nuove costruzioni – e non anche alla demolizione e ricostruzione degli edifici esistenti, con sopraelevazione degli stessi – è fondata sull’art. 8 della L.R. Lazio n. 7/2017, secondo il quale “Per la ricostruzione degli edifici demoliti è consentito il mantenimento delle distanze preesistenti con l’eventuale modifica delle stesse nel rispetto della distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate, nonché la deroga, secondo quanto previsto dall’articolo 2 bis del d.p.r. 380/2001, alle densità fondiarie di cui all’articolo 7 del decreto del Ministero dei lavori pubblici 1444/1968 e alle altezze massime consentite dall’articolo 8 del medesimo decreto 1444/1968. Tali deroghe sono consentite esclusivamente per la realizzazione delle premialità e degli incrementi previsti dalla presente legge”.

Tuttavia, come già osservato in precedenza, la norma in questione ha carattere eccezionale e premiale, e pertanto va ricondotta ad un ambito di interpretazione strettamente testuale.

Sicché appare evidente che la medesima si riferisca esclusivamente all’ipotesi di “ricostruzione degli edifici demoliti”, lasciando così al di fuori della propria portata tutte le altre fattispecie, ivi compresa quella di demolizione e ricostruzione con ampliamento di volume e sagoma e sopraelevazione oggetto dell’intervento progettato dalla ricorrente.

11. Pertanto, e in conclusione, va dichiarata la sopravvenuta improcedibilità del ricorso principale, ad eccezione del motivo di gravame sub II), nonché l’inammissibilità del motivo di ricorso aggiunto sub IV).

Il motivo sub II del ricorso introduttivo e di tutti i restanti motivi aggiunti, invece, vanno respinti in quanto infondati.

12. Quanto sopra comporta la totale soccombenza di parte ricorrente, con conseguente condanna della medesima alla rifusione delle spese di lite in favore di Roma Capitale, liquidate secondo dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Bis), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, dichiara la sopravvenuta carenza di interesse in ordine ai motivi sub I) e III) del ricorso introduttivo.

Dichiara inammissibile per difetto di interesse il motivo sub IV) di cui al ricorso per motivi aggiunti.

Rigetta, in quanto infondati, il motivo di ricorso principale sub II) e tutti i restanti motivi aggiunti.

Condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite in favore di Roma Capitale che liquida in Euro 5.000,00.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 11 novembre 2022 con l'intervento dei magistrati:

Pietro Morabito, Presidente

Michelangelo Francavilla, Consigliere

Giuseppe Licheri, Referendario, Estensore

L'ESTENSORE

IL PRESIDENTE

Giuseppe Licheri

Pietro Morabito

 

IL SEGRETARIO

Pubblicato in: Edilizia » Giurisprudenza

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