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Sui soggetti legittimati alla impugnazione di una procedura espropriativa

Pubblico
Martedì, 17 Novembre, 2020 - 18:30

Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), sentenza n.6893 del 9 novembre 2020, sui soggetti legittimati alla impugnazione di una procedura espropriativa.

MASSIMA

   La legittimazione ad agire contro una procedura espropriativa spetta sia ai proprietari dei terreni colpiti che a tutti gli altri soggetti titolari di un interesse qualificato ad essi ricollegabile, che deve essere provato sulla base di un titolo giuridico; ai fini della sussistenza della legittimazione attiva all’impugnazione degli atti di una procedura ablativa, cioè, non è ritenuto essenziale che la relazione giuridica col bene immobile sia costituita dal diritto di proprietà, ma è sufficiente l’esistenza di un diritto reale o personale di godimento su cosa altrui, ossia comunque una relazione giuridica qualificata con il bene oggetto del provvedimento ablativo, tale da identificare una posizione giuridica soggettiva individualizzata e specifica che connoti un interesse all’annullamento dell’atto ablativo.

​​​​​​       Tra i titolari di diritti reali o personali di godimento, solo l’enfiteuta è espressamente preso in considerazione ai fini della corresponsione dell’indennità di esproprio; per contro, agli altri non è riconosciuto il diritto ad indennità aggiuntive, risolvendosi la relativa posizione sul piano dei rapporti con la proprietà, la tutela della pienezza del ristoro della quale è rafforzata dalla riconosciuta possibilità di proporre l’opposizione alla stima, ovvero di partecipare al giudizio già instaurato allo scopo.

SENTENZA

N. 06863/2020REG.PROV.COLL.

N. 07284/2010 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 7284 del 2010, proposto dai signori OMISSIS, con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, viale delle Milizie, n. 9;

contro

il Comune di Africo, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Pasquale Simari, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Fortunato Vitale in Roma, viale Giuseppe Mazzini, n. 140;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria -sezione staccata di Reggio Calabria- n. 536/2010, resa tra le parti, concernente l’occupazione sine titulo di terreni per la realizzazione di opere pubbliche e conseguente richiesta di risarcimento danni.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Africo;

Vista l’ordinanza n. 914 del 4 febbraio 2020;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 22 settembre 2020, alla quale nessuno è comparso, il Cons. Antonella Manzione;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

1. Col ricorso in epigrafe gli appellanti hanno impugnato la sentenza del T.A.R. per la Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, n. 536/2010, pubblicata il 4 giugno 2010 e non notificata, che ha dichiarato inammissibile, in parte per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo ed in parte per mancanza di legittimazione processuale dei ricorrenti, il ricorso proposto dagli stessi per il risarcimento del danno conseguito alla lamentata occupazione illegittima di terreni di loro proprietà nel Comune di Africo. In particolare, il Tribunale dichiarava il difetto di giurisdizione con riferimento alle particelle occupate senza la preventiva dichiarazione di pubblica utilità (individuate nelle domande rubricate sub c, d ed e), in quanto non sarebbe stata fornita la prova dell’avvenuta realizzazione delle opere da parte del Comune; il difetto di legittimazione attiva per mancanza della prova della proprietà delle residue particelle (domande sub a, b e f), con riferimento alle quali il procedimento di esproprio non si era formalmente concluso con il previsto decreto. Ciò non senza avere ricostruito la complessa vicenda in fatto e in diritto, da un lato richiamando il contrapposto esito del contenzioso originariamente instaurato innanzi al giudice ordinario (sentenza del Tribunale civile di Reggio Calabria, Sezione staccata di Melito Porto Salvo, n. 33 dell’11 aprile 2004, pubblicata il 16 aprile 2004, di declinazione della competenza); dall’altro ritenendo insufficiente la qualifica di “livellari” dei ricorrenti.

2. L’appello si affida ai seguenti temi censori:

a) avrebbero errato i primi giudici nel ritenere non provata la qualità di proprietari dei ricorrenti, essendo il loro originario status di livellari venuto meno per effetto del disposto dell’art. 1 della l. n. 16 del 1974, ovvero per acquisto della piena proprietà per usucapione; in denegata ipotesi, anche tale status avrebbe dovuto essere sufficiente a fondare la legittimazione a ricorrere.

b) egualmente errata sarebbe la declaratoria di difetto di giurisdizione in quanto fondata sull’assunto che le opere pubbliche realizzate non potevano essere ascritte al Comune di Africo, circostanza questa per confutare la quale era stato anche richiesto invano un supplemento istruttorio;

c) a tale riguardo, la tesi di parte avversa che vorrebbe ascrivere le stesse ai privati proprietari di abitazioni limitrofe si paleserebbe inverosimile, avuto riguardo anche alla tipologia dell’intervento, consistito sostanzialmente nella realizzazione della viabilità di raccordo con importanti arterie comunali;

d) inammissibile, infine, oltre che infondata, sarebbe l’eccezione di usucapione proposta dal Comune di Africo, prospettata per la prima volta nell’odierno contenzioso e mai emersa in quello innanzi al giudice civile di cui l’attuale costituisce la prosecuzione in riassunzione.

Da qui la ribadita richiesta risarcitoria estesa all’intera area occupata, quantificata, salvo diversa determinazione da assumere all’esito di apposita consulenza tecnica d’ufficio, in mq.7.446 circa per un importo complessivo di euro 516.456,90 corrispondente al danno per equivalente, calcolato nella misura riveniente dall’applicazione della l. n. 662/1997, più quello relativo al periodo di occupazione sine titulo.

3. Si è costituito in giudizio il Comune di Africo, chiedendo la reiezione dell’appello e l’integrale conferma della sentenza impugnata e, in via subordinata ed incidentale, la declaratoria del difetto di legittimazione passiva riferita ai terreni occupati in via di fatto, ovvero l’intervenuta usucapione, ex artt. 1158 e ss. del codice civile, per possesso ultraventennale, pubblico, pacifico ed ininterrotto di tutte le aree intestate quali livellari agli odierni appellanti. La vicenda risarcitoria, inidonea ad interrompere il decorso dei termini di usucapione, sarebbe inoltre da circoscrivere alla rivendicata proprietà, non potendo essere approcciata dalla diversa angolazione della riconosciuta qualifica di livellari senza incorrere in un’indebita mutatio libelli.

4. Con ordinanza n. 914 del 4 febbraio 2020, su accordo delle parti, la causa, già fissata per la trattazione all’udienza del 28 gennaio 2020, è stata rinviata per consentire agli appellanti di ricalibrare le proprie domande alla luce delle pronunce dell’Adunanza Plenaria nn. 2, 3 e 4 del 20 gennaio 2020, concernenti la corretta qualificazione delle richieste risarcitorie conseguenti ad occupazioni sine titulo una volta negata l’applicabilità nel procedimento di espropriazione per pubblica utilità dell’istituto della rinuncia abdicativa (o traslativa) e affermata la conseguente necessità di utilizzare comunque il paradigma di cui all’art. 42 bis del d.P.R. n. 327/2001.

4. Con memoria versata in atti il 28 febbraio 2020 gli appellanti hanno pertanto chiesto la condanna dell’amministrazione ad acquisire gli immobili in controversia ai sensi della richiamata norma, ovvero, in alternativa, a restituirli previa remissione in pristino degli stessi, fermo restando il diritto al risarcimento del danno, depositando anche gli atti con i quali essa è stata previamente diffidata in tal senso.

Il Comune a sua volta ha contestato l’applicabilità della norma invocata alla fattispecie in esame, in quanto da riferire a terreni di altrui proprietà, non già di proprietà pubblica, come nel caso di specie. A tale riguardo, ha altresì evidenziato anche di aver effettuato ulteriori approfondimenti all’esito dei quali sarebbe emersa la volontà di avviare un procedimento di “verifica demaniale” delle terre oggetto di uso civico ai sensi dell’art. 18 della l.r. 21 agosto 2007, n. 18.

5. La causa è stata trattenuta in decisione all’udienza pubblica del 22 settembre 2020, alla quale nessuno è comparso per le parti.

DIRITTO

6. Preliminarmente il Collegio ritiene di dovere scrutinare il secondo e il terzo motivo di ricorso, con i quali si contesta la sentenza nella parte in cui ha declinato la giurisdizione con riferimento ai beni illegittimamente occupati senza alcuna previa attivazione di procedure ablatorie.

Afferma il Tribunale che nel caso di specie le parti non hanno fornito la prova che l’occupazione possa essere addebitata al Comune di Africo, con ciò adombrando anche un profilo di difetto di legittimazione passiva dello stesso, espressamente sviluppato dalla difesa civica in sede di ricorso incidentale.

Rileva la Sezione come a tutto concedere alla tesi degli appellanti, dando rilievo alla destinazione pubblica delle aree occupate, piuttosto che alla individuazione degli autori materiali delle opere nelle quali si è concretizzata ridetta occupazione, ai fini della perimetrazione della competenza del giudice amministrativo è sufficiente evidenziare la natura meramente comportamentale della condotta lesiva. In sintesi, esula dalla giurisdizione del giudice amministrativo la richiesta risarcitoria relativa alle porzioni della particella catastale n. 48, sulle quali insistono strade prive di denominazione di collegamento tra arterie viarie pubbliche, meglio individuate in atti, di estensione pari, rispettivamente, a mq. 532,00 e 144,00, nonché a quella del mappale 53, per un totale di circa mq. 880,00. Ciò in quanto, come peraltro rilevato anche dal giudice civile nella sentenza del 2004 richiamata sub § 1, la relativa occupazione non è sorretta da una dichiarazione di pubblica utilità, ancorché illegittima o inefficace o comunque non seguita dal completamento della procedura.

Costituisce al riguardo ius receptum, cui questo Collegio intende fare riferimento, quello in forza del quale rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la richiesta risarcitoria il cui presupposto sia la trasformazione del fondo in assenza di un atto autoritativo formale ovvero in forza di un mero comportamento materiale, non collegato, cioè, all’esercizio, pur se illegittimo, del relativo potere (al riguardo v. Corte cost., n. 191 del 2006; Cass. civ., sez. un., n. 23462 del 2016; Cons. Stato, A.P., nn. 10 e 12 del 2007). Quanto detto è da estendere anche alla richiesta risarcitoria per il danno arrecato dalla realizzazione della strada insistente sul mappale 53 in maniera difforme rispetto alle previsioni del Piano regolatore generale, sì da impedire la realizzazione per i terreni residui di interesse dei ricorrenti dei previsti sei lotti edificabili di circa mq. 700 cadauno. Essa, infatti, attiene alla sostanziale perdita di valore della porzione residua derivata da una più ampia ablazione, che finanche in caso di illegittimità solo formale della stessa è egualmente da ricondurre all’ambito di competenza del giudice ordinario (v. ex multis Cass., SS.UU., n. 2721 del 2018).

L’eventuale abusività della realizzazione delle opere, quale parrebbe emergere proprio dalla ricostruzione della difesa civica, che ne disconosce la paternità, senza tuttavia indicare il titolo di natura urbanistico-edilizia, in forza delle quali esse sarebbero state realizzate da privati, attiene alla fase dei controlli, peraltro doverosi, facenti capo al Comune ai sensi dell’art. 27 del d.P.R. n. 380/2001, ma non rileva ai fini dell’odierna controversia.

7. Da quanto detto consegue la reiezione dei motivi di appello rubricati come secondo e terzo e la conseguente conferma della sentenza impugnata nella parte in cui afferma il difetto di giurisdizione con riferimento ai terreni in atti meglio identificati. Consegue altresì la declaratoria di improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse dell’autonomo motivo di doglianza incidentalmente prospettato dal Comune di Africo inerente, appunto, il richiesto riconoscimento del proprio difetto di legittimazione passiva con riferimento agli stessi, da stralciare dal perimetro della decisione.

8. Circoscritto come sopra il petitum che ci occupa in via residuale, può passarsi ad esaminare la assai più complessa questione della disconosciuta legitimatio ad causam. Afferma dunque il giudice di prime cure che nel caso di specie la mancata prova della proprietà dei lotti occupati dal Comune, renderebbe irrilevante la qualifica di livellari posseduta dai ricorrenti e risultante dalle visure catastali.

Ritiene il Collegio che l’assunto, condivisibile nelle premesse, non lo è nelle conseguenze, dovendo pertanto trovare accoglimento la doglianza di parte che, nella denegata ipotesi confermativa della mancata affrancazione dal livello ope legis, chiede di dare rilievo allo stesso quale titolo di legittimazione ad agire.

Se da un lato, dunque, non può essere bastevole al riconoscimento della piena proprietà la produzione di una dichiarazione unilaterale, resa peraltro “ai soli fini catastali” , dall’altro anche lo status di livellario consente di agire a tutela dei propri diritti, indebitamente lesi da un illegittimo procedimento di esproprio.

La l. 29 gennaio 1974, n. 16, infatti, successivamente abrogata dall’art. 24 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni dalla l. 6 agosto 2008, n. 133, vigente ratione temporis ed invocata dagli appellanti, ha previsto la cancellazione del livello in caso di omesso versamento per oltre un ventennio di un canone inferiore a £.1.000,00, ove il rapporto tra le parti fosse stato costituito anteriormente al 28 ottobre 1941, con la chiara finalità di eliminare per ragioni di antieconomicità diritti perpetui di contenuto spesso anacronistico. Essa tuttavia si riferisce dichiaratamente alle sole Amministrazioni e Aziende autonome dello Stato, e non può trovare applicazione, come correttamente affermato dal T.A.R. per la Calabria, ad altri enti territoriali, quali un Comune, siccome le parti pretenderebbero nel caso di specie. Ciò del resto ha trovato da subito conferma nelle indicazioni della magistratura contabile, laddove, esprimendosi su specifico quesito (Corte dei conti, sez. regionale controllo della Campania, parere n. 18 del 18 maggio 2006), si è fatto leva sia sulla richiamata lettera della legge, sia sulla volontà del legislatore, per come emerge dai, pur scarni, riferimenti contenuti in proposito negli atti parlamentari (atto Senato della Repubblica n.365; atto Camera dei Deputati n.2460, della IV legislatura). D’altro canto, è evidente che la richiamata procedura di affrancazione non può operare in automatico e sulla base di una mera dichiarazione di parte, dovendo essere collocata nella complessa cornice normativa in materia di diritti reali di godimento, tra i quali rientrano anche i livelli e l’enfiteusi, la cui antica origine e larga diffusione nel passato, non trova più riscontro nel mutato quadro economico-sociale, rendendo di sicuro interesse, ma intuibile complessità l’immediata risoluzione di tutti i possibili risvolti di ciascuna singola vicenda ad essi riconducibile. Essa presuppone comunque un accertamento giudiziale, ovvero convenzionale del titolo, tanto più che la mera indicazione catastale non consente, ad esempio, di rilevarne l’eventuale derivazione da usi civici, secondo l’ancor più risalente disciplina contenuta nel r.d. 16 giugno 1927, n. 1766 e relativo regolamento di esecuzione r.d. 26 febbraio 1928, n. 332. Circostanza questa che il Comune di Africo ha manifestato l’intenzione di accertare, seppure tardivamente, ricorrendo all’apposito procedimento di verifica di cui alla l.r. n. 18/2007. In sintesi, come peraltro affermato dal giudice di prime cure, il sistema di norme dettate in prevalenza per l’enfiteusi, ma di fatto estendibili anche ai livelli, «contempla una precisa procedura giudiziale per la proposizione della domanda di affrancazione […] che esplica effetti costitutivi, che non può essere sostituita da una dichiarazione unilaterale a soli fini catastali, quale quella che parte ricorrente ha prodotto in atti».

8.1. Escluso, dunque, che possa ritenersi provata l’affrancazione dal livello e l’acquisizione della piena proprietà da parte dei ricorrenti, al pari, del resto, di quanto da essi genericamente preteso in termini di usucapione, resta acclarato e incontestata tra le parti l’esistenza del livello stesso su concessione del medesimo Comune di Africo. Il fatto, poi, che ciò si fosse tradotto in un uso esclusivo e assimilabile alla proprietà da parte dei ricorrenti è in qualche modo dimostrato dal comportamento tenuto dall’amministrazione medesima, che ha scelto di formalizzare una procedura di esproprio, poi indebitamente interrotta. Pur non essendo, infatti, stata precisata l’esatta natura degli atti adottati, ricondotti genericamente a “consegna” e/o ultimazione di lavori, la formalizzazione degli stessi -incontestata tra le parti e dunque ormai assurta a forza di giudicato- ha fondato l’affermazione della giurisdizione del giudice amministrativo per i terreni cui gli stessi si riferiscono, «trattandosi di controversia nella quale si controverte intorno alla esecuzione di atti o provvedimenti amministrativi riconducibili, secondo la loro causa, all’esercizio del pubblico potere dell’amministrazione».

9. Il T.A.R. per la Calabria, traendo argomenti anche da -in verità superate- pronunce di questo giudice, acquisita la circostanza dell’esistenza del “livello”, la ha tuttavia ritenuta insufficiente a fondare un’azione di tipo risarcitorio per la relativa occupazione sine titulo. La difesa civica, dal canto suo, nel controdedurre alla prospettazione avversa, non ha inteso contestare tale peculiare rapporto con i fondi occupati, limitandosi a negare la possibilità che il giudice, una volta adìto da sedicenti proprietari, possa scrutinarne le pretese mutandone il titolo di legittimazione.

Il Collegio non ritiene corretta nessuna delle due affermazioni.

9.1. La legittimazione a ricorrere, ovvero il titolo o possibilità giuridica dell’azione, discende da qualsivoglia speciale posizione qualificata del soggetto che lo distingue dal quisque de populo rispetto all’esercizio del potere amministrativo. Essa assume evidentemente un aspetto del tutto particolare nell’azione di condanna, basata sulla invocata sussistenza del diritto di credito (che esiste se sussistono i presupposti dell’art. 2043 c.c. in relazione alla sfera giuridico-patrimoniale di un determinato soggetto). Secondo la giurisprudenza consolidata della Corte di legittimità (cfr. ex plurimis Cass. n. 14468 del 2008), ridetta legitimatio ad causam, attiva e passiva, consiste nella affermazione della titolarità del potere e del dovere di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, mediante la rappresentazione di fatti in astratto idonei a fondare il diritto azionato, secondo la prospettazione dell’attore, prescindendo dall’effettiva titolarità del rapporto (che costituisce questione di merito). A ciò consegue il dovere del giudice di verificarne l’esistenza in ogni stato e grado del procedimento (cfr. Cass. civ., Sez. un., 16 febbraio 2016, n. 2951 secondo cui, da un lato, «la titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, vantata in giudizio è un elemento costitutivo della domanda e spetta all’attore allegarla e provarla, salvo che il convenuto non la riconosca o svolga difese incompatibili con la sua negazione»; dall’altro, «la carenza di titolarità, attiva o passiva, del rapporto controverso è rilevabile di ufficio dal giudice se risultante dagli atti di causa»). Va tuttavia considerato l’altrettanto consolidato indirizzo della Corte di cassazione, secondo il quale «nel giudizio di risarcimento dei danni derivati ad un bene immobile da un illecito comportamento del convenuto, atteso che oggetto della pretesa azionata è, non già il diretto e rigoroso accertamento della proprietà del fondo, bensì l'individuazione del titolare del bene avente diritto al risarcimento, non è richiesta la prova rigorosa della proprietà (cd. probatio diabolica), potendo il convincimento del giudice in ordine alla legittimazione alla pretesa risarcitoria formarsi sulla base di qualsiasi elemento documentale e presuntivo sufficiente ad escludere un'erronea destinazione del pagamento dovuto» (da ultimo, Cass. n. 18841 del 2016). Principio che è stato affermato anche in riferimento specifico alla occupazione da parte della Pubblica Amministrazione (Cass. n. 10294 del 2002; id., n. 7904 del 2012).

10. Traslando tali affermazioni paradigmatiche nella disamina concreta della fattispecie all’esame, va ricordato come secondo la prevalente interpretazione giurisprudenziale, dalla quale non v’è motivo per discostarsi, la legittimazione ad agire contro una procedura espropriativa spetta sia ai proprietari dei terreni colpiti che a tutti gli altri soggetti titolari di un interesse qualificato ad essi ricollegabile, che deve essere provato sulla base di un titolo giuridico (cfr. Consiglio di stato, Sez. IV, 18 giugno 2008, n. 3033). Ai fini della sussistenza della legittimazione attiva all’impugnazione degli atti di una procedura ablativa, cioè, non è ritenuto essenziale che la relazione giuridica col bene immobile sia costituita dal diritto di proprietà, ma è sufficiente l’esistenza di un diritto reale o personale di godimento su cosa altrui, ossia comunque una relazione giuridica qualificata con il bene oggetto del provvedimento ablativo, tale da identificare una posizione giuridica soggettiva individualizzata e specifica che connoti un interesse all’annullamento dell’atto ablativo (cfr. Cons. Stato sez. IV, 6 aprile 2012, n.2050; per questione specificamente relativa alla posizione legittimante del c.d. livellario, ancorché negandosi che l’Amministrazione sia tenuta a notificargli avvisi e comunicazioni, assieme o in luogo del concedente, v. anche Cons. Stato, sez. IV, 16 settembre 2011, n. 5233, che conferma T.A.R. per la Campania, Salerno, 26 febbraio 2009, n. 669, al cui orientamento si è richiamato anche T.A.R. per il Lazio, sez. II bis, 29 luglio 2010, n. 29121). La titolarità in capo ai ricorrenti di una “concessione livellaria” consente di riconoscere loro una posizione giuridica qualificata azionabile in giudizio parificabile a quella del titolare di un diritto di enfiteusi. Ciò non può non valere anche in caso di azioni meramente risarcitorie o restitutorie, nel limitato ambito di ammissibilità delle stesse alla luce dei principi affermati di recente dalle richiamate pronunce dell’Adunanza plenaria.

Quanto detto rende pertanto irrilevante la prova della proprietà piena dei terreni ai fini della riconosciuta legittimazione, impattando la stessa casomai sul quantum della richiesta, ma non sull’an. In sintesi, la circostanza che, diversamente da quanto affermato dal primo giudice, l’atto di una procedura espropriativa - e conseguentemente i comportamenti interni alla stessa suscettibili di ledere posizioni giuridiche- possa essere impugnato anche da un livellario, rende neutra ai fini del riconoscimento della legittimazione la prova della precisa qualificazione dello status di riferimento, purché quantomeno uno dei due sia dimostrato come sussistente.

Non merita pertanto accoglimento l’eccezione sollevata dall’Amministrazione comunale, in forza della quale l’aver agito rivendicando il diritto al risarcimento quali proprietari escluderebbe la possibilità che l’istanza venga valutata con riferimento alla titolarità di altri diritti, seppure sussistenti. In presenza, infatti, di oggettivi elementi che comprovano l’effettiva titolarità - o quanto meno la disponibilità giuridicamente qualificata - dei terreni da parte dei ricorrenti, non è degna di pregio l’argomentazione circa la non piena corrispondenza tra le situazioni giuridiche rappresentate e quelle concretamente emerse, laddove queste ultime siano comunque tutelate dalla norma. L’ involucro giuridico all’interno del quale è stata prospettata la richiesta risarcitoria, seppure errato, non ne preclude infatti la ricollocazione in altra veste, laddove incontestata tra le parti e rilevante a fini (anche) risarcitori. La verifica della legittimazione attiva, peraltro, può avvenire anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, secondo la legge che regola il rapporto dedotto, salvo che sulla questione sia intervenuto giudicato interno.

11. L’art. 34, comma 1, del D.P.R. n. 327/2001, sotto la rubrica “indennità di esproprio”, prevede espressamente che essa spetti sia al proprietario che all’enfiteuta, ove possessore del bene immobile, con ciò ritenendo di particolare incisività rispetto al bene il rapporto intercorrente fra il titolare di tale diritto di godimento e il terreno oggetto della procedura. Per contro, la titolarità di qualsivoglia diritto reale o personale di godimento sul bene (ultimo comma della medesima norma) non dà diritto ad indennità aggiuntive, ma si risolve sul piano dei rapporti con la proprietà, la tutela della pienezza del ristoro della quale è rafforzata dalla riconosciuta possibilità di proporre l’opposizione alla stima, ovvero di partecipare al giudizio già instaurato allo scopo.

In sintesi, sotto il profilo del procedimento espropriativo e del diritto all’indennità di esproprio, il T.U.es. considera l’enfiteuta, unico fra i titolari di diritto reale di godimento, sullo stesso piano del concedente proprietario, col quale è destinato a concorrere alla percezione dell’indennità in ragione del valore attribuibile ai relativi diritti (cfr. T.A.R. Sicilia - Catania, Sez. III, 21 novembre 2013, n. 2801).

12. Il “livello” o “precario”(che mutua il suo nome da libellus, vale a dire dal documento, in cui si consacrava il contratto, costituente il rapporto), è un istituto giuridico utilizzato in epoca imperiale e diffusissimo fino al 1800. Privo di una propria configurazione normativa, esso differiva dal censo perché, dei vari obblighi gravanti sul livellario, nel censo non vi era che quello del pagamento di un tenue canone; il livello, inoltre, ampiamente usato nel Medioevo soprattutto fra privati e chiese, si configurava originariamente come una vendita per un certo termine, allo scadere del quale il contratto si poteva rinnovare versando nuovamente il corrispettivo (detto esso stesso livello, o anche “pensio”, censo), mentre alla morte del livellario la piena proprietà tornava alla Chiesa concedente. Il livello finì per confondersi e unificarsi completamente con l’enfiteusi – e così il corrispettivo del livello, col canone di questa – già prima delle codificazioni moderne (lo stesso dicasi per le norme sul diritto di prelazione, sui laudemi, ecc.), fino alla sostanziale affermazione legislativa della applicabilità allo stesso delle norme di cui agli artt. 957 ss., c.c.

Emerge, quindi, un primo dato di fatto, vale a dire che, secondo un’esegesi di tipo storico-sistematico, il livello è un diritto reale, assimilabile all’enfiteusi, con la conseguenza che è alla disciplina di quest’istituto che occorre far riferimento, per la soluzione del problema che ci occupa.

12.1. Proprio a causa, infatti, della commistione o confusione, determinatasi già sul finire del Medioevo tra i termini di livello e di enfiteusi, fin dal codice civile del 1865 tali contratti agrari sono rientrati in una tendenza legislativa volta all’accorpamento disciplinare degli istituti a vantaggio dell’enfiteusi. Tale tendenza ha avuto il suo culmine con le leggi 22 luglio 1966, n. 607 e 18 dicembre 1970, n. 1138, non a caso evocate quale “cornice di sistema” anche nell’apprezzabile ricostruzione operata dal giudice di prime cure. In verità queste ultime due leggi tentarono di assoggettare alle regole dell’enfiteusi anche altri tipi di contratti o rapporti di concessione fondiaria: dapprima quella del 1966, con riferimento ai contratti aventi contenuto e caratteri analoghi o affini a quelli tipici del rapporto enfiteutico e poi la successiva del 1970, estesero infatti l’applicabilità della enfiteusi a quasi tutti gli altri tipi di contratti agrari con clausola migliorativa (elemento questo la cui mancanza aveva costituito in passato uno dei possibili fattori di distinzione tra le due situazioni). L’obiettivo era quello di favorire gli enfiteuti o concessionari di fondi rustici per motivi di ordine economico-sociale, agevolando l’affrancazione con più convenienti criteri di determinazione dei canoni e dei capitali d’affranco e con più rapide e sommarie forme di procedimento. Sebbene dunque alcune parti o articoli delle leggi menzionate furono oggetto di declaratoria d’illegittimità ad opera della Corte Costituzionale (sentenze n. 37 del 1969 e n. 53 del 1974), gli interventi legislativi de quibus hanno comunque prodotto una sempre maggiore confusione tra questi rapporti agrari.

Da qui anche la necessità, talvolta, proprio ai fini di valutare l’impatto su eventuali vincoli di inedificabilità, di individuare nella fonte del livello la tipologia ed intensità dello stesso, distinguendosi quelli cc.dd. alloidali in quanto connotati da un rapporto meramente obbligatorio, parificabile alla piena proprietà privata del bene, proveniente dalla sdemanializzazione (sistemazione) di terre civiche (proprietà collettive) gravate da un canone (demaniale) di natura enfiteutica imposto con vari istituti normativamente previsti. In tali ipotesi, la demanialità si è cioè trasferita dal bene civico al canone “di natura enfiteutica” il cui capitale di affrancazione è imprescrittibile in quanto destinato alla collettività per opere che vadano a compensare la perdita del valore dell’area demaniale civica perduta (ai sensi dell’art. 24 della l.n. 1766/1927).

La evidente mancanza di chiarezza sulla genesi giuridica del livello in controversia, che il Comune di Africo tenta di fare entrare tardivamente nella controversia richiamando la propria volontà di verificare la preesistenza di usi civici attiene agli esiti, futuri e incerti, oltre che eventuali, di ulteriore contenzioso. Se ne è doverosamente fatto cenno in questa sede al solo scopo di evidenziare gli aspetti ancora chiaroscurali della vicenda tra le parti, e tuttavia i punti fermi allo stato della controversia, riconducibili alla sussistenza di un livello a favore del medesimo Comune, come tale assimilabile ad un’enfiteusi, sufficiente a legittimare la richiesta risarcitoria per l’occupazione finalizzata alla realizzazione di opere pubbliche pregiudizievoli della fruizione dello stesso.

13. Il riconoscimento, in favore del livellario, del diritto a ricorrere avverso gli atti ablativi costituisce un risultato, cui può pervenirsi solo per via interpretativa, in considerazione dei penetranti poteri che lo stesso, com’è innegabile, esercita sul fondo (al pari dell’enfiteuta): ciò, peraltro, non esclude, ed anzi necessariamente implica, che tale potere (di gravare gli atti espropriativi) debba esser riconosciuto, in primis, al concedente del diritto (di cd. “precario”), che è, e resta, proprietario, fino all’affrancazione (com’è, e resta, proprietario, fino all’affrancazione, il concedente nell’enfiteusi).

Da ultimo, peraltro, tale assimilazione è stata da sempre ribadita dai giudici di legittimità laddove hanno evidenziato i punti di contatto tra le due posizioni giuridiche sul piano concettuale e sistematico nella tendenziale perpetuità del rapporto (tanto che si parla anche, appunto, di locazione perpetua) e nella possibilità di sfruttamento del terreno in tutto assimilabile a quella del proprietario (cfr. Cass. Civ.,sez. I, 9 gennaio 2020, n.213). La differenza tra i due istituti, pertanto, appare spesso più teorica che pratica: la confusione spesso sorta rispetto al diverso fenomeno dell’affrancazione dei terreni, gravati da usi civici, oltre ad essere in contrasto con il dato letterale (una cosa sono, evidentemente, gli usi civici, un’altra è il cd. “livello” o “precario”), è palesemente smentita dalla storia del cd. “precario”, tale da patrocinare l’assimilazione del medesimo all’enfiteusi, salvo situazioni specifiche di cui si è fatto cenno.

14. Sulla materia dell’occupazione sine titulo, come già ricordato più volte, sono di recente intervenute importanti pronunce dell’Adunanza plenaria che hanno posto imprescindibili punti fermi, ai quali occorre fare riferimento anche per risolvere l’odierna controversia.

In particolare si è chiarito come non possa trovare spazio nel nostro ordinamento un istituto quale la rinuncia abdicativa alla proprietà, tendenzialmente identificata nell’avvenuta proposizione di un’azione risarcitoria per equivalente da parte del proprietario i cui terreni siano stati indebitamente occupati. Risulta infatti ormai acquisita l’incompatibilità con la tipicità che caratterizza il procedimento di espropriazione, di meccanismi atipici di acquisizione della proprietà riconducibili al paradigma dell’occupazione acquisitiva o usurpativa, cui può corrispondere, dalla parte del soggetto che la subisce, la rinuncia traslativa o abdicativa. Da qui la tendenziale inammissibilità di una domanda di parte avente contenuto solo risarcitorio, il cui disconosciuto valore di rinuncia implica la permanenza dell’illecito sotteso alla relativa richiesta.

A fronte, dunque, della natura permanente dell’illecito concretizzatosi nell’avvio in fatto o in diritto di una procedura di esproprio senza formalizzarne l’atto finale, si è rivitalizzata l’importanza che ridetto atto intervenga comunque, sanando, ancorché pro futuro, la situazione e facendo coincidere lo stato di fatto con quello di diritto.

15. Con riferimento, tuttavia, alle ipotetiche conseguenze di tali affermazioni anche sui giudizi in corso, il giudice della Plenaria ha opportunamente richiamato l’adeguato “strumentario” messo a disposizione dall’ordinamento processuale amministrativo per evitare che le domande proposte in primo grado, congruenti con quello che allora appariva il vigente quadro normativo e l’orientamento giurisprudenziale di riferimento assurto a diritto vivente, siano di ostacolo alla formulazione di istanze di tutela adeguate al diverso contesto normativo e giurisprudenziale vigente al momento della decisione della causa in appello, quali la conversione della domanda, ove ne ricorrano le condizioni, la rimessione in termini per errore scusabile ai sensi dell’art. 37 c.p.a., l’invito alla precisazione della domanda in relazione al definito quadro giurisprudenziale, in tutti i casi previa sottoposizione della relativa questione processuale, in ipotesi rilevata d’ufficio, al contraddittorio delle parti ex art. 73, comma 3, c.p.a., a garanzia del diritto di difesa di tutte le parti processuali.

Ciò è quanto accaduto nel caso di specie, laddove, a fronte del possibile impatto su un’insistita richiesta solo risarcitoria dei principi affermati dall’Adunanza plenaria, gli appellanti hanno riqualificato la propria originaria domanda, richiedendo espressamente l’intimazione al Comune di Africo di provvedere ai sensi dell’art. 42 bis del T.U.es., già infruttuosamente invocato in via stragiudiziale. Sul punto, la difesa civica oppone la sostanziale inapplicabilità della disposizione ad una posizione giuridica diversa dalla proprietà.

16. Il Collegio non condivide la prospettazione del Comune di Africo, ritenendo conforme alla sistematica della normativa, come sopra ricostruita, una diversa opzione ermeneutica, ispirata ai principi di certezza delle situazioni giuridiche poste a base della codifica del relativo principio una volta venuta meno la previsione dell’acquisizione sanante di cui all’art. 43 del medesimo T.U.es. a seguito della sua declaratoria di illegittimità costituzionale (Corte cost., n. 193 del 4 ottobre 2010).

In punto di diritto, va infatti ricordato in termini generali come l’occupazione abusiva di un immobile, quale situazione nella quale rientra qualsiasi situazione originaria (apprensione del bene diretta da parte della P.A., senza alcuna previa attivazione di procedure ablatorie) o sopravvenuta ( a seguito di declaratoria di illegittimità di procedure espropriative, ovvero di inefficacia delle stesse) di acquisizione della disponibilità materiale di immobili da parte della mano pubblica, in passato ricondotte alla dizione di “vie di fatto”, “occupazione usurpativa”, “occupazione acquisitiva”, “accessione invertita”, costituisce un illecito permanente rientrante nel genus dell’art. 2043 c.c. La cessazione di ridetta permanenza consegue a specifici fatti o atti giuridici, tra i quali la restituzione del fondo al legittimo proprietario, la stipula di un accordo transattivo con effetti traslativi del diritto di proprietà in capo all’amministrazione agente, il maturare dell’usucapione a condizioni date, ovvero l’adozione del provvedimento oggi previsto dall’art. 42 bis del T.U.es.

17. L’art. 42 bis del d.P.R. n. 327/2001, pur essendo rubricato in termini generali “utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico”, declina alla lettera l’acquisizione al patrimonio indisponibile dello stesso e la corresponsione “al proprietario” dell’indennizzo per il danno subito, quantificato nel 10 % del valore venale del bene. Nei commi successivi si preoccupa altresì di indicare i criteri alla stregua dei quali calcolare il ristoro, pure parificato ad indennizzo malgrado l’improprio riferimento lessicale alla funzione risarcitoria, per la precedente occupazione sine titulo.

Ritiene la Sezione che il combinato disposto di tale disposizione con la previsione della titolarità del diritto all’indennizzo anche per l’enfiteuta - e dunque, mutatis mutandis, per il livellario- non possa non imporre all’Amministrazione procedente di attivarsi per concludere il procedimento avviato, acquisendo o restituendo il bene, previa rimessione in pristino, all’esito di motivata valutazione comparativa degli interessi in gioco, siccome ben chiarito dalle più volte ricordate pronunce della Plenaria.

19. Nel caso di specie, tuttavia, l’ulteriore peculiarità è data dal fatto che sedicente concedente il diritto di livello è lo stesso Comune che dovrebbe acquisirne la proprietà. Il che rende all’apparenza ontologicamente incompatibile qualsivoglia ipotesi acquisitiva di quanto in realtà già nella disponibilità dell’Ente procedente. Ritiene tuttavia il Collegio che siffatta ricostruzione comporterebbe un’indebita discriminazione tra l’ipotesi in cui il fondo sia gravato da enfiteusi o livello a favore di un privato o di un ente diverso da quello che agisce per l’esproprio e quella in cui, al contrario, concedente ed espropriante -rectius, nella prima fase, occupante- coincidano. Lasciare tale situazione priva di qualsivoglia forma di tutela equivarrebbe a consentire al concedente di disporre del proprio bene prescindendo dall’esistenza di un diritto reale sullo stesso, addirittura trasformandolo irreversibilmente sì da renderlo inutilizzabile ai fini posti a base dell’originario rapporto tra le parti. E’ evidente invece che la tutela accordata allo stesso, ove si identifichi nell’enfiteusi ovvero, per quanto chiarito, in un livello, non può non estendersi fino alla pretesa che le opzioni gestionali funzionali alla realizzazione dell’opera pubblica vengano tradotte nei corrispondenti provvedimenti amministrativi, superando situazioni di illegittimità e incertezza. Del resto, ove l’esistenza di un penetrante diritto di godimento altrui si fosse palesato neutro rispetto ai poteri dispositivi sul bene, non si spiega l’avvenuta attivazione della procedura di esproprio, evidentemente finalizzata alla caducazione dello stesso e al rientro nella piena proprietà per finalità di interesse pubblico.

20. Se così è, appare evidente la necessità che il Comune di Africo si determini formalmente sui terreni in controversia con riferimento ai quali ha agito a fini di esproprio, provvedendo ad “acquisirli”, intendendosi necessariamente con tale espressione la formale cancellazione del livello, ove le necessiti la permanenza dell’opera pubblica realizzata sui terreni gravati dallo stesso; ovvero a “restituirli” alla relativa fruizione, senza che ciò impatti sul regime proprietario.

21. Quanto infine alla rivendicata usucapione da parte della difesa civica, essa non è in alcun modo

assentibile, stante che affinché essa operi si è da sempre ritenuto necessario il carattere non violento della condotta, l’individuazione del momento esatto della interversio possessionis, nonché il computo della prescrizione acquisitiva dalla data di entrata in vigore del T.U.es. ( 30 giugno 2003), perché solo l’art. 43 dello stesso ha sancito il superamento dell’istituto dell’occupazione acquisitiva e, dunque, solo da quel momento può ritenersi individuato, ex art. 2935 c.c., il “giorno in cui il diritto può essere fatto valere” (cfr. C.g.a. n. 255/2019; Cons. Stato, A.P., n. 2 del 2016). Circostanze queste non ravvisabili nel caso di specie.

22. Concludendo, il Collegio ritiene pertanto che l’appello debba essere respinto, confermando il difetto di giurisdizione, avuto riguardo ai terreni occupati al di fuori di qualsivoglia procedura ablatoria, individuati dal giudice di prime cure con le lettere C), D) e E), riferita quest’ultima anche alla richiesta risarcitoria per la perdita di valore di area residua; lo accoglie, nei limiti della necessità che si addivenga ad acquisizione o restituzione, per le ulteriori porzioni, nell’accezione poc’anzi meglio precisata.

Pertanto, ai sensi dell’art. 34, primo comma, lett. c), c.p.a., il Collegio, anche allo scopo di porre termine ad una controversia ormai risalente negli anni, ritiene opportuno disporre che il Comune di Africo addivenga ad un accordo sostitutivo di provvedimento entro centoventi giorni dalla comunicazione o dalla notificazione della sentenza, comprensivo della quantificazione delle voci di ristoro riconosciute di spettanza degli appellanti, corrispondenti a quanto dovuto per equivalente ovvero all’indennizzo per il periodo di occupazione successivo alla scadenza degli atti in forza dei quali è stata effettuata l’immissione in possesso; in caso di decorrenza infruttuosa di tale termine, emetta, nei successivi sessanta giorni, un formale e motivato decreto di acquisizione dell’area, secondo i dettami rivenienti dall’art. 42 bis T.U.es. o ne disponga la restituzione, quantificando da subito in termini temporali ed economici le scansioni della necessaria riduzione in pristino dello stato dei luoghi. Val la pena ricordare come nella quantificazione delle somme dovute ex art. 42 bis T.U. es., l’Amministrazione dovrà necessariamente calcolare un indennizzo pari al valore venale della parte di terreni occupati poi oggetto del provvedimento di acquisizione al momento di adozione di quest’ultimo. A ciò si aggiunge il risarcimento per l’occupazione illegittima, nella misura dell’interesse del 5% sul valore venale del terreno occupato al momento dell’adozione del provvedimento di acquisizione (art. 42 bis, terzo comma).

All’inutile decorso di ciascuno dei termini come sopra indicati, a tanto provvederà, nella qualità di Commissario ad acta, il Prefetto di Reggio Calabria, il quale, anche avvalendosi di personale dell’Ufficio Territoriale del Governo al quale è preposto, appositamente delegato, adotterà -in luogo dell’Amministrazione intimata - le determinazioni necessarie al fine di dare compiuta esecuzione a quanto stabilito nella presente pronunzia.

Il Collegio fa presente che qualsiasi controversia che dovesse nuovamente insorgere sulla determinazione o sul pagamento dell’indennità di esproprio è appannaggio della giurisdizione del giudice ordinario (Cass. civ., sez. un., n. 4880 del 2019; 2 febbraio 2018, n. 2583; Cons. Stato, sez. IV, 25 febbraio 2019, n. 1272). Ciò a valere anche per quelle aventi ad oggetto l’interesse del cinque per cento del valore venale del bene, dovuto per il periodo di occupazione senza titolo dei terreni successivamente acquisiti, siccome previsto dal comma 3, ultima parte, di detto articolo, «a titolo di risarcimento del danno», giacché esso, ad onta del tenore letterale della norma, costituisce solo una voce del complessivo «indennizzo per il pregiudizio patrimoniale» di cui al comma 1 della medesima norma, secondo un'interpretazione imposta dalla necessità di salvaguardare il principio costituzionale di concentrazione della tutela giurisdizionale avverso i provvedimenti ablatori; dette controversie sono devolute alla competenza, in unico grado, della Corte di appello (Cons. Stato, sez. IV , 29 settembre 2017, n. 4550 del 2017; Cass. civ., sez. un., 25 luglio 2016, n. 15283; id., ord. 29 ottobre 2015, n. 22096).

23. La complessità della vicenda giustifica la compensazione delle spese di entrambi i gradi di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei limiti di cui in motivazione, respingendolo per il resto. Respinge l’appello incidentale.

Spese del doppio grado compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 settembre 2020 con l’intervento dei magistrati:

Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente

Giancarlo Luttazi, Consigliere

Oreste Mario Caputo, Consigliere

Antonella Manzione, Consigliere, Estensore

Carla Ciuffetti, Consigliere

L'ESTENSORE

IL PRESIDENTE

Antonella Manzione

Gianpiero Paolo Cirillo

 

 

 

 

 

IL SEGRETARIO

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