Pubblicata in GU del 03.12.2014 ordinanza rimessione q.l.c. art.42-bis d.P.R. n.327/01
Pubblico
Venerdì, 5 Dicembre, 2014 - 01:00
E' stata pubblicata in GU del 3 dicembre 2014, la n.50, l'ordinanza di rimession alla Corte Costituzionale, dell'art.42-bis TUE sollevata a giugno dal TAR Lazio Roma. A questo punto, dopo due questione di legittimità costituzionale della norma pendenti, la prima è della Cassazione SSUU di gennaio 2014, si attende il "verdetto finale".
N. 219 ORDINANZA (Atto di promovimento) 5 giugno 2014
Ordinanza del 5 giugno 2014 del Tribunale amministrativo regionale
per il Lazio sul ricorso proposto da Benedetti Antonio ed altri
contro il Comune di Roma..
Espropriazione per pubblica utilita' - Occupazione acquisitiva -
Previsione che l'autorita' che utilizza un bene immobile per scopi
di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed
efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica
utilita', puo' disporre che esso sia acquisito non retroattivamente
al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia
corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non
patrimoniale, quest'ultimo forfettariamente liquidato nella misura
del 10% del valore del bene stesso - Previsione dell'estensione del
potere di acquisizione alla servitu' di fatto - Abolizione della
condizione che l'immobile realizzando rientri in una delle
categorie individuate dagli artt. 822 e 826 c.c. postulate
dall'occupazione appropriativa e previsione dell'applicazione
dell'istituto anche nella ipotesi in cui sia stato annullato l'atto
da cui e' sorto il vincolo preordinato all'esproprio - Previsione
che il provvedimento ablativo non e' tenuto ad individuare la
destinazione dell'immobile, essendo sufficiente l'indicazione delle
circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione
dell'area e, se possibile, la data dalla quale essa ha avuto inizio
- Modalita' procedimentali e criteri per la determinazione
dell'indennizzo - Previsione della applicabilita' della normativa
anche ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi
e' stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato
o annullato - Violazione del principio di uguaglianza - Incidenza
sul diritto di difesa e di azione in giudizio - Lesione del diritto
di proprieta' - Violazione dei principi di buon andamento e di
imparzialita' della pubblica amministrazione - Violazione dei
principi del giusto processo - Violazione di obblighi
internazionali derivanti dalla CEDU come interpretata dalla Corte
EDU.
- Decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327, art.
42-bis, inserito dall'art. 34, comma 1, del decreto-legge 6 luglio
2011, n. 98, convertito, con modificazioni, nella legge 15 luglio
2011, n. 111.
- Costituzione, artt. 3, 24, 42, 97, 113 e 117, primo comma, in
relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali; Primo Protocollo
addizionale della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali, art. 1.
(GU n.50 del 3-12-2014 )
IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER IL LAZIO
Sezione Seconda
Ha pronunciato la presente ordinanza sul ricorso numero di registro
generale 1636 del 2003, integrato da motivi aggiunti, proposto da:
Antonio Benedetti, Giovanni. Benedetti, Sergio Murgia
(successore a titolo particolare di Termentini Nazzareno), Massimo
Zampetti, Stefania Zampetti e Rosanna Pasquini (in qualita' di eredi
di Gerardo Zampetti), tutti rappresentati e difesi dagli avv.ti
Alessandro Cecchi e Claudia Molino, ed elettivamente domiciliati
presso lo studio di quest'ultima, in Roma, via Panama, 58;
Contro comune di Roma, in persona del Sindaco p.t., rappresentato
e difeso dall'avv. Enrico Maggiore, con il quale domicilia in Roma,
via Tempio di Giove, 21, presso l'Avvocatura capitolina;
Per la condanna del Comune di Roma a risarcire i danni causati ai
ricorrenti per la perdita di proprieta' di un loro terreno a seguito
di «accessione invertita»; ovvero, subordine, per la condanna di Roma
Capitale a restituire ai ricorrenti il terreno stesso, previa sua
rimessa in pristino, oltre al risarcimento dei danni, materiali e
non, per il periodo di illecita occupazione.
Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Roma;
Relatore alla pubblica udienza del giorno 7 maggio 204 il Cons.
Silvia Martino;
Uditi gli avv.ti delle parti, come da verbale;
1. I ricorrenti espongono di essere comproprietari (in parte) di
appezzamento di terreno in localita' Podere Feliciani, nel Comune di
Roma, iscritto nel N.C.T. nel foglio 599, part. n. 412, di
complessivi mq. 3060.
Precisamente essi rappresentano i 15/18 delle quote di
comproprieta' del terreno.
Questo terreno e' stato occupato in via d'urgenza ed interamente
trasformato in maniera irreversibile dall'amministrazione capitolina.
Successivamente, e' stato legittimamente espropriato per soli mq.
1.958, con decreti del Presidente della Giunta Regionale del Lazio
nn. 1420 e 1421 del 30 luglio 1993.
I sig.ri Benedetti Antonio, Benedetti Giovanni, Termentini
Nazzareno e Gerardo Zampetti, hanno quindi promosso apposito giudizio
innanzi alla Corte d'Appello di Roma per ottenere la determinazione
dell'indennita' di occupazione, nonche', limitatamente alla parte
espropriata, pari, come detto a mq. 1958, la determinazione
dell'indennita' di esproprio.
Il giudizio si e' concluso con sentenza n. 2043 del 12 giugno
2000, passata in giudicato, con la quale la Corte d'Appello di Roma:
a) ha determinato e liquidato l'indennita' di occupazione
dell'intero terreno originariamente occupato di mq. 3060, per tutto
il periodo di occupazione (cioe' dal 1982 al 30 luglio 1993);
b) ha determinato e liquidato l'indennita' di esproprio per
il terreno effettivamente espropriato di mq. 1958.
Nel corso del giudizio di fronte alla Corte d'Appello e' emerso
che anche la restante parte del terreno non espropriata era stata
utilizzata dal Comune che vi aveva eseguito la prevista opera
pubblica.
Parte ricorrente ritiene pertanto che si sia verificata, a
decorrere dal 30 luglio 1993, la c.d, «accessione invertita», con
conseguente suo diritto al risarcimento del danno.
Con il ricorso introduttivo, a tale fine, ha invocato il comma
7-bis dell'art. 5-bis del decreto-legge n. 333/92, all'epoca vigente,
ritenendo di avere diritto ad ottenere un risarcimento (in linea
capitale), pari alla media tra il valore venale e il reddito
dominicale rivalutato, il tutto maggiorato del 10%.
La Corte di Appello di Roma, con la cit. sentenza n. 2043/2000,
ha stimato l'indennita' di esproprio in Legge 412.378,020, con
riferimento al luglio 1993.
La stessa Corte ha anche determinato l'indennita' virtuale di
esproprio per tutto il terreno, pari a L. 644.472.720.
Conseguentemente, l'indennita' virtuale di esproprio per il
terreno occupato e non espropriato e' pari a L. 232.094.700.
Tale valore, secondo i ricorrenti, puo' essere preso come
riferimento anche nel presente giudizio, in quanto accertato con una
sentenza passata in giudicato.
Il valore di cui sopra deve essere incrementato del 10% con la
conseguenza che la somma dovuta dal Comune di Roma, per sorte
capitale, e' pari a L. 255.034.170.
Gli attuali attori rappresentano i 15/18 dei comproprietari
originari, per cui il danno che deve essere loro risarcito e' pari a
L. 212.753.475, oltre interessi e rivalutazione.
Nel corso del giudizio, al sig. Termentini Nazareno e' succeduto,
a titolo particolare per atto tra vivi, il sig. Sergio Murgia.
Inoltre, hanno spiegato intervento volontario, i sigg.ri Rosanna
Pasquini, Massimo Zampetti e Stefania Zampetti, in qualita' di eredi
di Gerardo Zampetti.
Con motivi aggiunti depositati il 16 novembre 2007, i ricorrenti
hanno evidenziato come, con sentenza n. 349 del 22 - 24 ottobre 2007,
la Corte costituzionale abbia dichiarato l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 5-bis, comma 7-bis del decreto-legge n. 333
del 1992, affermando che il risarcimento del danno per la perdita del
terreno a seguito di occupazione acquisitiva deve essere integrale.
Essi hanno, pertanto, integrato la domanda originaria, chiedendo
che il Comune venga condannato a risarcire il danno in misura pari al
valore venale del terreno illecitamente acquisito.
La cit. sentenza n. 2043/2000 ha stimato il valore venale del
terreno espropriato, al 1993, in L. 822.800.000. Rapportando tale
somma alla parte non espropriata, si ottiene la somma di L.
463.087.640, corrispondente ad euro 239.164,81,
In concreto, essi rivendicano la somma di euro 199.304,01, oltre
interessi e rivalutazione.
Infine, con motivi aggiunti del 7 giugno 2013, hanno
rappresentato di avere inutilmente diffidato l'amministrazione
capitolina a voler procedere secondo il sopravvenuto art. 42-bis del
decreto del Presidente della Repubblica, n. 327/2001, e quindi
all'acquisizione del terreno per cui e' causa, previa determinazione
e pagamento delle somme loro dovute.
Alla luce del mutato contesto normativo hanno quindi spiegato una
ulteriore domanda, alternativa rispetto a quella originaria, volta a
conseguire, in via costitutiva, il trasferimento in favore di Roma
Capitale delle proprieta' del terreno (alla quale non hanno piu'
interesse) oltre la condanna della medesima amministrazione al
risarcimento del danno.
In via subordinata, hanno chiesto che Roma Capitale venga
condannata a restituire il terreno, previa sua rimessa in pristino,
oltre a corrispondere il risarcimento del danno per l'illecita
occupazione in misura pari al 5% in ragione di anno del valore venale
attuale del terreno maggiorato del 10%, e, quindi, in misura pari ad
euro 16.840,49 per ogni anno decorrente dal 31 luglio 1993, fino alla
data dell'effettiva restituzione. Il tutto, oltre rivalutazione e
interessi.
Si e' costituita, per resistere, Roma Capitale, depositando
documenti e memorie.
Il ricorso e' stato trattenuto per la decisione alla pubblica
udienza del 7 maggio 2014.
2. Il Collegio rileva, in primo luogo, l'inammissibilita' della
(implicita) domanda volta a conseguire l'accertamento dell'avvenuta
abdicazione da parte dei ricorrenti al diritto di proprieta' sulle
aree interessate dalla realizzazione dell'opera pubblica, al fine di
conseguire una sentenza «costitutiva» che operi essa stessa il
trasferimento della proprieta' in favore dell'amministrazione
capitolina o che, comunque, ordini a Roma Capitale di adottare il
provvedimento di. acquisizione disciplinato dall'art. 42-bis del
decreto del Presidente della Repubblica n. 327/2001.
In applicazione degli ordinari principi civilistici, l'esigenza
di una piena tutela del diritto di proprieta' postula che l'effetto
traslativo consegua a una volonta' espressa ed inequivoca del
proprietario interessato, da tradursi in strumenti negoziali formali
e tipici (Consiglio di Stato, Sez. VI, 10 maggio 2013, n. 2559)
dovendosi comunque tener conto dello specifico regime giuridico degli
atti inter vivos con cui si puo' disporre, anche merce'
l'abdicazione, del diritto di proprieta' (art. 1350 n. 5 c.c. e art.
2643 n. 5 c.c.).
Posto, quindi, che non puo' il giudice adito procedere alla
declaratoria dell'intervenuta abdicazione, da parte dei ricorrenti,
al diritto di proprieta' delle aree sulle quali e' stata realizzata
l'opera pubblica, a favore della resistente amministrazione, la
disciplina applicabile alla fattispecie va individuata nell'art.
42-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 327 del 2001 -
introdotto con l'art. 34 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98,
convertito in Legge 15 luglio 2011, n. 111 (in materia di misure
urgenti per la stabilizzazione finanziaria) a seguito della
declaratoria di illegittimita' costituzionale dell'art. 43 del
decreto del Presidente della Repubblica n. 327 del 2001 con sentenza
della Consulta n. 293 del 2010, il quale disciplinava l'istituto
dell'acquisizione sanante - con il quale e' stato reintrodotto
l'istituto dell'acquisizione coattiva dell'immobile del privato
utilizzato dall'amministrazione per fini di interesse pubblico,
prevedendo l'acquisizione al sub patrimonio indisponibile del bene
del privato allorche' la sua utilizzazione risponda a «scopi di
interesse pubblico» nonostante difetti un valido ed efficace
provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilita'.
Dispone, difatti, il citato articolo, che «Valutati gli interessi
in conflitto, l'autorita' che utilizza un bene immobile per scopi di
interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace
provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilita',
puo' disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo
patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un
indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale,
quest'ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per
cento del valore venale del bene».
E' stato cosi' reintrodotto il potere discrezionale gia'
disciplinato dall'art. 43 del T.U. Espropriazioni per pubblica
utilita' dichiarato incostituzionale, potendo l'amministrazione
competente, valutate le circostanze e comparati gli interessi in
conflitto, decidere se restituire l'area al proprietario demolendo in
tutto o in parte l'opera sostenendone le relative spese, oppure se
disporne l'acquisizione, si da evitare che venga demolito quanto
altrimenti risulterebbe meritevole di essere ricostruito (Consiglio
di Stato, Sez. VI, 1° dicembre 2011 n. 6351).
Da quanto qui illustrato, ai ricorrenti dovrebbe essere
riconosciuto, ai sensi del cit. 42-bis del decreto del Presidente
della Repubblica n. 327/2001, il diritto alla restituzione delle aree
illegittimamente occupate e ad ottenere il risarcimento dei danni
medio tempore subiti, a vario titolo derivanti dalla perdurante
abusiva occupazione delle aree di sua proprieta', ferma restando la
possibilita' per l'amministrazione Comunale di procedere
all'acquisizione, consensuale o coattiva, delle stesse.
Secondo la prevalente giurisprudenza amministrativa, spetta in
via esclusiva all'amministrazione che utilizza un bene immobile per
scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed
efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica
utilita', procedere alla valutazione degli interessi in conflitto al
fine di disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo
patrimonio indisponibile, non potendo il giudice sostituirsi
all'amministrazione nelle valutazioni alla stessa spettanti in merito
alla sussistenza dei presupposti (e, in particolare, del persistente
interesse pubblico alla fruizione, da parte della collettivita',
dell'opera pubblica, nella specie di impianto di depurazione) per
procedere all'acquisizione dei beni con il consenso della controparte
o facendo ricorso alla procedura di cui all'art. 42-bis del decreto
del Presidente della Repubblica n. 327 del 2001.
Il proprietario del bene immobile illegittimamente occupato puo',
quindi, solo chiedere la restituzione del bene, fermo restando che
l'amministrazione puo' paralizzare tale domanda mediante l'adozione
del provvedimento con cui disporre l'acquisto ex nunc del bene al suo
patrimonio indisponibile, con corresponsione al proprietario di un
indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale subito
(cfr., ex plurirlis, Cons. St., sezione IV, sentenza n. 4445 del 4
settembre 2013). Posta l'applicabilita' alla fattispecie in esame -
in relazione all'oggetto della domanda ed ai fatti di causa - della
norma di cui al cit. art. 42-bis del decreto del Presidente della
Repubblica n. 327/2001, ritiene il Collegio che sia rilevante e non
manifestamente infondata, analogamente a quanto ritenuto dalla Corte
di Cassazione, Sezioni Unite, con ordinanza n. 441 del 13 gennaio
2014, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 42-bis
del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327,
introdotto dall'art. 34, primo comma, del decreto-legge 6 luglio
2011, n. 98, convertito in legge 15 luglio 2011, n. 111, in relazione
agli artt. 3, 24, 42, 97 e 117 Cost., anche alla luce dell'art. 6 e
dell'art. 1 del I Protocollo Addizionale della Convenzione Europea
dei Diritti dell'Uomo e delle Liberta' Fondamentali, in quanto la
disposizione citata, reintroducendo una sorta di procedimento
ablativo semplificato in favore della pubblica amministrazione che
utilizzi senza titolo un bene privato per scopi di interesse
pubblico, si pone in contrasto con il principio costituzionale di
eguaglianza e di ragionevolezza intrinseca, con la garanzia della
proprieta' privata, posta altresi' da vincoli derivanti da obblighi
internazionali, con il principio di legalita' dell'azione
amministrativa, riservando all'amministrazione, intesa come soggetto
autore di un fatto illecito e non quale espressione della funzione
amministrativa, un ingiustificato trattamento privilegiato, tale da
consentirle l'acquisizione del bene al patrimonio pubblico per
effetto di un suo comportamento «contra ius», di cui si avvantaggia
pure nella determinazione dell'indennizzo o risarcimento dovuto al
proprietario rispetto al ristoro altrimenti spettante nel caso di
legittimo procedimento espropriativo.
3. Quanto al profilo inerente la rilevanza della questione, la
stessa va ravvisata nella applicabilita' di tale norma alla
fattispecie in esame, sulla, cui base devono essere decise le
questioni proposte da parte ricorrente.
Nell'attuale quadro normativo, come delineato dall'art. 42-bis
del decreto del Presidente della Repubblica n. 327 del 2001, grava
sull'amministrazione che ha modificato un bene immobile del privato
in assenza di un valido ed efficace titolo di esproprio o
dichiarativo della pubblica utilita' dell'opera realizzata l'obbligo
giuridico di far venire meno l'occupazione sine titulo e di adeguare
la situazione di fatto a quella di diritto o attraverso la
restituzione dei beni ai titolari, con demolizione di quanto
realizzato e relativa riduzione in pristino (affrontando le relative
spese), ovvero attivandosi perche' vi sia un titolo d'acquisto
dell'area da parte del soggetto attuale possessore evitando che sia
demolito quanto dovrebbe essere ricostruito, potendo il provvedimento
di acquisizione essere adottato solo sulla base di una determinazione
dell'amministrazione, anche in corso di giudizio, essendo il potere
acquisitivo esercitabile anche in presenza di una pronunzia
giurisdizionale passata in giudicato che abbia annullato il
provvedimento che costituiva titolo per l'utilizzazione dell'immobile
da parte della stessa amministrazione, atteso che il giudicato e'
intervenuto sull'atto annullato e non sul rapporto tra privato ed
amministrazione.
Viene in tal modo riconosciuta alla p.a. la possibilita' di
adottare un nuovo atto finche' perdura lo stato di utilizzazione, pur
se illegittima, del bene del privato, atto che e' distinto da quello
annullato, tant'e' che non opera con efficacia retroattiva e non ha
una funzione sanante del' provvedimento annullato, dovendo
l'amministrazione restituire il bene al privato solo quando siano
cessate le ragioni di pubblico interesse che avevano comportato
l'utilizzazione del suolo ovvero, in caso contrario, acquisire al suo
patrimonio indisponibile il bene su cui insiste o dovra' essere
realizzata l'opera pubblica o di pubblico interesse.
Il potere discrezionale dell'amministrazione di disporre
l'acquisizione sanante e' in tal modo conservato (Cons. Stato, Sez.
IV, 16 marzo 2012, n. 1514): l'art. 42-bis infatti regola i rapporti
tra potere amministrativo di acquisizione in sanatoria e processo
amministrativo di annullamento in termini di autonomia, consentendo
l'emanazione del provvedimento dopo che «sia stato annullato l'atto
da cui sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio, Patto che
abbia dichiarato la pubblica utilita' di un'opera o il decreto di
esproprio» od anche «durante la pendenza di un giudizio per
l'annullamento degli atti citati, se l'amministrazione che ha
adottato l'atto impugnato lo ritira»; non regola piu' invece i
rapporti tra azione risarcitoria, potere di condanna «del giudice e
successiva attivita' dell'Amministrazione.
Ne consegue che, non potendo piu' essere azionato il meccanismo
procedimentale accelerato previsto dal citato art. 43 (Cons. Stato,
Sez. IV, 29 agosto 2012, n. 4650) ed essendo la realizzazione
dell'opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato un mero
fatto, non in grado di assurgere a titolo dell'acquisto e come tale
inidoneo a determinare il trasferimento della proprieta'
dell'immobile (Cons. Stato, Sez. IV, 29 agosto 2011, n. 4833; 28
gennaio 2011, n. 676), l'amministrazione puo' divenirne proprietaria
o al termine del procedimento, che si conclude sul piano fisiologico
con il decreto di esproprio o con la cessione del bene espropriando,
oppure quando, essendovi una patologia per cui il bene e' stato
modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di
esproprio o dichiarativo della pubblica utilita', venga emesso il
decreto di acquisizione al patrimonio indisponibile ai sensi
dell'art. 42-bis, indennizzando il proprietario per il mancato
utilizzo del bene (5% di interesse annuo sul valore venale di ogni
anno), per il lamentato danno patrimoniale (al valore venale attuale)
e non patrimoniale (10% del valore venale attuale salvo casi
particolari in cui e' il 20%).
Alla stregua dell'attuale quadro normativo, quindi, la
realizzazione dell'opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato
e' in se' un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo
dell'acquisto, come tale inidoneo a determinare il trasferimento
della proprieta', per cui solo il formale atto di acquisizione
dell'amministrazione puo' essere in grado di limitare il diritto alla
restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi (rinunziativi o
abdicativi) della proprieta' in altri comportamenti, fatti o contegni
(Consiglio di Stato, Sez. IV, 3 ottobre 2012 n. 5198; TAR Lazio,
Roma, 6 novembre 2012 n. 9052).
Ne discende che, laddove l'amministrazione non intenda comunque
apprendere il bene tramite l'acquisizione del consenso della
controparte o l'adozione di un provvedimento autoritativo, e' suo
obbligo primario procedere alla restituzione della proprieta'
illegittimamente detenuta, a meno di non apprendere legittimamente il
bene facendo uso unicamente dei due strumenti tipici, ossia il
contratto, tramite l'acquisizione del consenso della controparte, o
il provvedimento, e quindi anche in assenza di consenso ma tramite la
riedizione del procedimento con le sue garanzie.
L'illecita occupazione, e quindi il fatto lesivo, permangono
pertanto fino al momento della realizzazione di una delle due
fattispecie legalmente idonee all'acquisto della proprieta',
indifferentemente dal fatto che questo evento avvenga consensualmente
o autoritativamente.
Ed invero, con la declaratoria di illegittimita' costituzionale
dell'art. 43 del Testo unico sulle espropriazioni di cui alla
sentenza della Corte costituzionale n. 293 del 2010, con espunzione
dal nostro ordinamento dell'istituto dell'acquisizione de facto della
proprieta' in mano pubblica a seguito della realizzazione dell'opera,
l'esecuzione dell'opera pubblica non costituisce impedimento alla
restituzione dell'area illegittimamente occupata e cio'
indipendentemente dalle modalita' - occupazione acquisitiva o
usurpativa - di acquisizione del terreno (in tal senso anche Cons.
Stato, Sez. V, 2 novembre 2011, n. 5844).
Applicando le indicate coordinate interpretative dell'art. 42-bis
del decreto del Presidente della Repubblica n. 327 del 2001 alla
fattispecie in esame, caratterizzata dall'intervenuta realizzazione
di un'opera pubblica su aree di proprieta' dei ricorrenti in assenza
di un valido titolo ablatorio, con conseguente illegittimita'
dell'occupazione, va dunque escluso che si sia determinato un
acquisto a titolo originario delle aree da parte dell'amministrazione
in virtu' della radicale e definitiva trasformazione del suolo,
conseguente alla sua occupazione ed alla realizzazione dell'opera
pubblica, non essendosi conseguentemente estinto il diritto di
proprieta' del suolo in capo alla ricorrente.
Tenuto conto, inoltre, che Parti 42-bis del decreto del
Presidente della Repubblica n. 327 del 2000 affida all'autorita'
amministrativa la scelta di determinarsi in ordine all'eventuale
acquisizione delle aree irreversibilmente trasformate, ne discende
l'impossibilita' per il giudice di sostituirsi all'amministrazione
nella previa valutazione dei contrapposti interessi, con conseguente
preclusione alla possibilita' di ordinare un facere alla pubblica
amministrazione, nella specie di ordine di procedere all'adozione di
un provvedimento - di acquisto ex nunc della proprieta' delle aree
trasformate dalla realizzazione dell'opera pubblica.
Non vi e' spazio, difatti, nell'ordinamento, per configurare un
modo di acquisto della proprieta' da parte dell'amministrazione
attraverso un ordine del giudice, non prevedendo il citato art.
42-bis che il proprietario danneggiato dall'occupazione illegittima
possa richiedere al giudice amministrativo di ordinare
all'amministrazione di attivare il procedimento espropriativo e non
rientrando la fattispecie di cui al predetto art. 42-bis tra quelle
indicate dall'art. 134 cod. proc. amm., in relazione alle quali
l'art. 7, comma 6, cod. proc. amm. prevede che il giudice
amministrativo possa sostituirsi all'Amministrazione.
Ricadendo, quindi, la fattispecie in esame, nell'ambito di
applicazione del citato art. 42-bis, il Collegio, come gia'
evidenziato, dovrebbe limitarsi a ordinare alla resistente
amministrazione Comunale di procedere alla restituzione delle aree
illegittimamente occupate, previa riduzione in pristino, e di
risarcire il danno per l'occupazione illegittima, fermo restando che
l'amministrazione potrebbe sempre paralizzare tale pronuncia mediante
l'adozione del provvedimento «acquisitivo» e con la corresponsione al
proprietario dell'indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non
patrimoniale subito.
4. Dato conto, sulla base di quando dianzi illustrato, della
rilevanza della questione di legittimita' costituzionale dell'art.
42-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 327 del 2001 ai
fini della decisione della controversia in esame, relativamente alla
non manifesta infondatezza della questione, sulla scorta di quanto
gia' argomentato dalla Corte di Cassazione, e' possibile rilevare
quanto segue.
4.1. L'art. 42-bis («Utilizzazione senza titolo di un bene per
scopi di interesse pubblico») del decreto del Presidente della
Repubblica n. 327 del 2001 - introdotto con l'art. 34 del
decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito in Legge 15 luglio
2011, n. 111 (in materia di misure urgenti per la stabilizzazione
finanziaria), dispone, per come dianzi illustrato, che «Valutati gli
interessi in conflitto, l'autorita' che utilizza un bene immobile per
scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed
efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica
utilita', puo' disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente,
al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto
un indennizzo per il pregiudizio patrimciniale e non patrimoniale,
quest'ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per
cento del valore venale del bene (comma 1). Il provvedimento di
acquisizione puo' essere adottato anche quando sia stato annullato
l'atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio, l'atto
che abbia dichiarato la pubblica utilita' di un'opera o il decreto di
esproprio...» (comma 2).
E' stata in tal modo reintrodotta, secondo la piu' qualificata
dottrina e la giurisprudenza amministrativa, la possibilita' per
l'amministrazione che utilizza un bene privato senza titolo per scopi
di interesse pubblico, di evitarne la restituzione al proprietario
(e/o la riduzione in pristino stato) attraverso il ricorso ad un atto
di acquisizione coattiva al proprio patrimonio indisponibile, che
sostituisce il procedimento ablativo prefigurato dal T.U., e si pone,
a sua volta, come una sorta di procedimento espropriativo
semplificato.
Esso assorbe in se' sia la dichiarazione di pubblica utilita',
che il decreto di esproprio, e quindi sintetizza «uno actu» lo
svolgimento dell'intero procedimento, in presenza dei presupposti
indicati dalla norma.
La nuova soluzione e' apparsa al legislatore indispensabile,
anzitutto per «eliminare la figura sorta nella prassi
giurisprudenziale della occupazione appropriativa ...nonche' quella
dell'occupazione usurpativa..» (Cons. St. Ad. gen. 4/2001), e quindi
al fine di adeguare l'ordinamento «ai principi costituzionali ed a
quelli generali di diritto internazionale sulla tutela della
proprieta'».
Ed infatti, in forza di detto provvedimento cessa l'occupazione
sine titulo, e nel contempo la situazione di fatto viene adeguata a
quella di diritto con l'attribuzione (questa volta) formale della
proprieta' alla p.a. (se prevale l'interesse pubblico), cui e'
consentita una legale via/ di uscita dalle numerose situazioni di
illegalita' realizzate nel corso degli anni.
Viene in tal modo consentito il ripristino della legalita' anche
con riferimento alle situazioni gia' verificatesi, per le quali
permane egualmente la necessita' di regolarizzazione definitiva.
L'art. 42-bis ha riproposto in sostanza l'applicazione estensiva
dell'istituto peculiare del precedente art. 43, di cui ha ereditato
perfino la rubrica, rivolgendola in diverse direzioni, in quanto:
1) ha superato la norma transitoria dell'art. 57 con
l'introduzione del comma 8, per il quale «Le disposizioni del
presente articolo trovano altresi' applicazione ai fatti anteriori
alla sua entrata in vigore ed anche se vi e' gia' stato un
provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato»;
2) ha confermato, malgrado la critica sul punto della Corte
costituzionale, l'estensione del potere di acquisizione alle servitu'
di fatto (comma 7), in passato escluse dall'occupazione espropriativa
(perche' ne difetta la non emendabile trasformazione del suolo in una
componente essenziale dell'opera pubblica);
3) non richiede piu' che l'immobile realizzando rientri in
una delle categorie individuate dagli artt. 822 ed 826 cod. civ.
(postulate dall'occupazione appropriativa).
E' stato, anzi, rescisso perfino il collegamento con l'area delle
espropriazioni per p.u., prevedendosi l'applicazione dell'istituto
anche nell'ipotesi in cui sia stato annullato l'atto da cui e' sorto
il vincolo preordinato all'esproprio: in base alla mera utilizzazione
dell'immobile per scopi di interesse pubblico, che ne abbia provocato
una qualche modifica, pur quando «attribuito...in uso speciale a
soggetti privati (comma 5);
4) ha conclusivamente invertito il principio tratto dall'art. 42
Cost. ed art. 834 cod. civ. che la potesta' ablativa ha carattere
eccezionale che non puo' essere esercitata se non nei casi in cui sia
la legge a prevederla (L. n. 2359 del 1865 per la realizzazione di
opere pubbliche, L. n. 1089 del 1939 per i beni storici, artistici;
decreto legislativo n. 215 del 1933 per finalita' di bonifica;
decreto legislativo n. 3267 del 1923 per fini di protezione
idro-geologica ecc). In quanto l'acquisizione predisposta in via
generale ed indeterminata per qualsiasi «utilizzazione» del bene -
meramente detentiva, come preordinata all'esproprio, reversibile
oppure irreversibile - seguito alla quale il provvedimento non e'
tenuto ad individuarne neppure la destinazione, essendo sufficiente
«l'indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita
utilizzazione dell'area e se possibile la data dalla quale essa ha
avuto inizio» (comma 4).
Questi caratteri dell'acquisizione, qualificabile come «sanante»,
sono gli stessi che hanno indotto la Corte costituzionale, con la
sentenza n. 293 del 2010 ad osservare che l'istituto «prevede un
generalizzato potere di sanatoria, attribuito alla stessa
amministrazione che ha commesso l'illecito, (anche) a dispetto di un
giudicato che dispone il ristoro in forma specifica del diritto di
proprieta' violato»; e che la norma, marcatamente innovativa rispetto
al contesto normativo positivo, «neppure e' coerente con quegli
orientamenti di giurisprudenza che, in via interpretativa, erano
riusciti a porre un certo rimedio ad alcune gravi patologie emerse
nel corso dei procedimenti espropriativi».
Ne consegue che la sua riproduzione nell'art. 42-bis, applicabile
ad ogni genere di situazione sostanziale e processuale sopra
indicata, con il risultato di offrire alla p.a. una vasta ed
indeterminata gamma di nuove prerogative, ripropone numerosi e gravi
dubbi di costituzionalita' - anche per le possibili violazioni del
principio di legalita' dell'azione amministrativa - in relazione ai
precetti contenuti negli art. 3, 24, 42 e 97 Cost.; nonche' di
compatibilita' con la normativa della Convenzione CEDU, e quindi
dell'art. 117 Cost.
In linea piu' generale, infatti, dottrina e giurisprudenza si
sono chieste se alla p.a. che abbia commesso un fatto illecito, fonte
per qualsiasi soggetto dell'obbligazione risarcitoria/restitutoria di
cui agli art. 2043 e 2058 cod. civ., possa essere riservato un
trattamento privilegiato (conforme alla normativa dell'art. 3 Cost.)
ed attribuita la facolta' di mutare, successivamente all'evento
dannoso prodotto nella sfera giuridica altrui, e per effetto di una
propria unilaterale manifestazione di volonta', il titolo e l'ambito
della responsabilita', nonche' il tipo di sanzione (da risarcimento
in indennizzo) stabiliti in via generale dal precetto del «neminem
laedere» per qualunque soggetto dell'ordinamento. Soprattutto al lume
del principio costituzionale (ritenuto da Corte costituzionale
204/2004 «una conquista liberale di grande importanza») secondo cui
sistema vigente e' privilegiata tutela della funzione amministrativa
e non della p.a. come soggetto.
La risposta non puo' che essere quella che, allorquando la stessa
opera al di fuori di detta funzione, e' soggetta a tutte le regole
vincolanti per gli altri soggetti, nonche' esposta alle medesime
responsabilita', fra cui quelle di cui alle norme codicistiche
menzionate; e che vale anche per essa la regola che «factum infectum
fieri nequit», costituente limite invalicabile anche per il potere di
sanatoria in via amministrativa di una situazione di illegittimita'.
Sicche', una volta attuata in tutti i' suoi elementi costitutivi
la lesione ingiusta di un diritto soggettivo, quest'ultima non puo'
mai mutare natura e divenire «giusta» per effetto dell'azione
amministrativa, cui non e' consentito neppure di eliminarne «ex post»
le conseguenze e le obbligazioni restitutorie e risarcitorie ad esse
correlate.
Queste risposte hanno trovato piena corrispondenza nella rigorosa
applicazione del principio di legalita' sostanziale predicato dalla
normativa dell'Unione Europea (cfr. Corte giust. UE 10 novembre 2011,
0C 405/10); nonche' nella giurisprudenza della Corte Edu (1, 13
ottobre 2005, Serrao; 15 novembre 2005, La Rosa; 3, 15 dicembre 2005,
Scozzati; 2, 9 gennaio 2009, Sotira; Grande Chambre, 4 gennaio 2010,
Guisa) proprio in materia di ingerenza illegittima nella proprieta'
privata, fondata sempre e comunque sul corollario divenuto per i
giudici di Strasburgo insuperabile, che alla P.A. non e' consentito
(ne' direttamente ne' indirettamente) trarre vantaggio da propri
comportamenti illeciti e, piu' in generale, da una situazione di
illegalita' dalla stessa determinata Laddove l'art. 42-bis, per il
solo fatto della connotazione pubblicistica del soggetto
responsabile, ha soppresso tale pregresso regime dell'occupazione
abusiva di un immobile altrui, sottraendo al proprietario l'intera
gamma delle azioni di cui disponeva in precedenza a tutela del
diritto dominicale, e la stessa facolta' di scelta di avvalersene o
meno.
E, considerando esclusivamente gli scopi dell'amministrazione,
l'ha trasferita dalla «vittima dell'ingerenza» (tale qualificata
dalla Corte europea), all'autore del fatto illecito, attraverso la
sostanziale introduzione con il semplice atto di acquisizione emesso
da quest'ultimo, di un nuovo modo di acquisto della proprieta'
privata, che prescinde ormai dal collegamento con la realizzazione di
opere pubbliche, e perfino con una pregressa procedura ablativa.
Ed infatti, l'istituto introdotto con Parti 42-bis, riproduttivo
di quello precedente, e' rivolti; a definire in linea generale (non
piu' un procedimento espropriativo in itinere, bensi') «quale sorte
vada riservata ad una res utilizzata e modificata dalla
amministrazione, restata senza titolo nelle mani di quest'ultima»
(Cons. St. Ad. Plen. 2/2005 e succ.).
Proprio per superare soluzioni analoghe, apparse non conformi al
suddetto principio di legalita' in ambito espropriativo, la
giurisprudenza di legittimita' fin dall'inizio degli anni 80 aveva
riconsiderato ed espunto (Cass. 382/1978; 2931/1980; 5856/1981) la
regola, fino ad allora seguita, che alla P.A. occupante (senza
titolo): fosse concesso di completare la procedura ablativa in ogni
tempo con la tardiva pronuncia del decreto di esproprio, perfino nel
corso di un giudizio intrapreso dal proprietario per la restituzione
dell'immobile; e che il solo fatto dell'adozione postuma del
provvedimento ablativo - ammissibile fino alla decisione della
Cassazione - comportasse la conversione automatica dell'azione
restitutoria e/o risarcitoria, in opposizione alla stima
dell'indennita': alla quale soltanto il proprietario finiva per avere
diritto.
E tale adeguamento alla normativa costituzionale non e' sfuggito
alla ricordata decisione n. 293 del 2010 della Consulta che lo ha
contrapposto agli effetti dell'acquisizione sanante (analoghi a
quelli del decreto tardivo), dando atto che da decenni «secondo la
giurisprudenza di legittimita', in materia di occupazione di urgenza,
la sopravvenienza di un provvedimento amministrativo non poteva avere
un'efficacia sanante retroattiva, determinata da scelte discrezionali
dell'ente pubblico o dai suoi poteri autoritativi».
Poste tali premesse, il dubbio di elusione delle garanzie poste
dall'art. 42 Cost. a tutela della «proprieta' privata» (commi 2 e 3)
appare al Collegio ancor piu' consistente in relazione al primo e
fondamentale presupposto per procedere al trasferimento coattivo di
un immobile mediante espropriazione, ivi indicato nella necessaria
ricorrenza di «motivi di interesse generale»; che trova puntuale
riscontro in quello di eguale tenore dell'art. 1 del Protocollo 1
All. alla Convenzione EDU per cui l'ingerenza nella proprieta'
privata puo' essere attuata soltanto «per causa di pubblica
utilita'».
Fin dalle decisioni piu' lontane nel tempo la Corte
costituzionale ha affermato al riguardo (sent. 90/1966) che «Il
precetto costituzionale, secondo cui una espropriazione non puo'
essere consentita dalla legge se non per motivi di interesse generale
(o per pubblica utilita'), e cioe' se non quando lo esigano ragioni
importanti per la collettivita', comporta, in primo luogo, la
necessita' che la legge indichi le ragioni per le quali si puo' far
luogo all'espropriazione; e inoltre che quest'ultima non possa essere
autorizzata se non nella effettiva presenza delle ragioni indicate
dalla legge» ed ancora che «Nelle leggi della materia - la cui
fondamentale espressione e' rappresentata dalla L. 25 giugno 1865, n.
2359 - si trova infatti costantemente affermato il concetto (e anche
li dove esso non risulta espressamente enunciato, e' stata la
giurisprudenza a proclamare l'inderogabilita' del principio) che fin
dal primo atto della procedura espropriativa debbono risultare
definiti non soltanto l'oggetto, ma anche le finalita', i mezzi e i
tempi di essa...».
Negli stessi termini tutti i successivi interventi della Consulta
(sentenze 95/1966; 384/1990; 486/1991; 155 e 188 /1995), nonche' la
consolidata giurisprudenza di legittimita' che fin dai primi anni 60
(Sez. un. 826/1960 e succ.), ha definito la dichiarazione di p.u. «la
guarentigia prima e fondamentale del cittadino e nel contempo la
ragione giustificatrice del suo sacrificio nel bilanciamento degli
interessi del proprietario alla restituzione dell'immobile ed in
quello pubblico al mantenimento dell'opera pubblica per la funzione
sociale della proprieta'»; ha costantemente confermato che la
suddetti garanzia costituzionale viene osservata soltanto se la causa
del trasferimento e' predeterminata nell'ambito di un apposito
procedimento amministrativo, nel bilanciamento dell'interesse
primario con gli altri interessi in gioco. Ed e' rimasta sempre
ancorata al principio che la mancanza della preventiva dichiarazione
di pubblica utilita' implica il difetto di potere
dell'amministrazione nel procedere all'espropriazione.
La norma costituzionale richiede, quindi, che i motivi
d'interesse generale per giustificare l'esercizio del potere
espropriativo nei (soli) casi stabiliti dalla legge, siano
predeterminati dall'amministrazione ed emergano da un apposito
procedimento - individuato nel procedimento dichiarativo del pubblico
interesse culminante nell'adozione della dichiarazione di pubblica
utilita' - preliminare, autonomo e strumentale rispetto al successivo
procedimento espropriativo in senso stretto, nel quale
l'amministrazione programma un nuovo bene giuridico destinato a
soddisfare uno specifico interesse pubblico, attuale e concreto. E
che siano palesati gradualmente e anteriormente (allo spossessamento
nonche') al sacrificio del diritto di proprieta', in un momento in
cui la comparazione tra l'interesse pubblico e l'interesse privato
possa effettivamente evidenziare la scelta migliore, nel rispetto dei
principi d'imparzialita' e proporzionalita' (art. 97 Cost.): in un
momento, cioe' in cui la lesione del diritto dominicale non e' ancora
attuale ed eventuali ipotesi alternative all'espropriazione non sono
ostacolate da una situazione fattuale ormai irreversibilmente
compromessa. Da qui la formula dell'art. 42, comma 3 per cui
l'espropriazione in tanto e' costituzionalmente legittima in quanto
e' originata da «motivi di interesse generale», ovvero collegata ad
un procedimento amministrativo che evidenzi i motivi che giustificano
una incisione nella sfera del privato proprietario, di questo
valorizzando il ruolo partecipativo; e la conseguenza che tale
risultato non sarebbe garantito dall'esercizio di un potere
amministrativo che, sebbene presupponga astrattamente una valutazione
degli interessi in conflitto, e' destinato in concreto a giustificare
ex post il sacrificio espropriativo unicamente in base alla
situazione di fatto illegittimamente determinatasi.
La preventiva emersione dei motivi d'interesse generale non
costituisce, conclusivamente, semplice regola procedimentale
disponibile dal legislatore, ma specifica garanzia costituzionale
strumentale alla tutela di preminenti valori giuridici: come dimostra
l'imponente giurisprudenza, soprattutto amministrativa, secondo la
quale la dichiarazione di pubblica utilita' non e' un semplice atto
prodromico con l'esclusivo effetto di condizionare la legittimita'
del provvedimento finale d'espropriazione ed impugnabile quindi solo
congiuntamente a quest'ultimo, bensi' un provvedimento autonomo,
idoneo a determinare immediati effetti lesivi nella sfera giuridica
di terzi. I quali si riflettono necessariamente sul piano della
tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.), consentendo all'espropriando
di partecipare alla fase antecedente alla sua adozione, e quindi di
contestarlo sin dal primo momento del suo farsi; coincidente con
l'emersione dei motivi d'interesse generale.
Per converso, l'art. 42 - bis,prescindendo dalla dichiarazione di
autorizza l'espropriazione sostanziale in assenza di una
predeterminazione dei motivi d'interesse generale che dovrebbero
giustificare il sacrificio del diritto di proprieta', reputando
sufficiente che la perdita del bene da parte del proprietario trovi
giustificazione nella situazione di fatto venutasi a creare per
effetto del comportamento contea ius dell'Amministrazione,
consentendone l'acquisizione anche laddove tale procedura sia stata
violata o totalmente omessa, in questo modo trasformando il rispetto
del procedimento tipizzato dalla legge in una mera facolta'
dell'amministrazione.
In tal modo la dichiarazione di pubblica utilita' viene relegata
al momento procedimentale eventuale, la cui assenza puo' essere
superata dai provvedimento di acquisizione che ne elimina in radice
la necessarieta'.
Cio' in contrasto, peraltro, anche con la complessiva e rigida
disciplina delle espropriazioni posta dallo stesso del decreto del
Presidente della Repubblica n. 327 del 2001 che nell'art. 2 ha
dichiarato di ispirarsi proprio al «principio di legalita'
dell'azione amministrativa»: dal momento che il potere sanante viene
di fatto ad esautorare il significato dei doveri, obblighi e limiti
che scandiscono il procedimento espropriativo.
Ed in contrasto soprattutto con quella specifica del capo 3^
relativo alla «fase della dichiarazione di p.u.» che ha istituito, in
conformita' all'art. 97 Cost. un giusto procedimento che riconosce e
valorizza il ruolo partecipativo del privato proprietario (artt. 11
seggi), reso superfluo dalla contestuale introduzione di un
meccanismo «semplificato», parallelo ed alternativo, rimesso a scelte
insindacabili dell'amministrazione. Alla quale in definitiva viene
attribuito il potere (di volta in volta, e per ogni espropriazione),
di recepire ovvero escludere le garanzie connesse al procedimento
normale. Non e' sostenibile, infatti, che, siccome l'adozione del
provvedimento di acquisizione e' subordinato ad una previa
valutazione degli interessi in conflitto ed al fatto che il bene
occupato sia utilizzato per scopi d'interesse generale, queste
espressioni abbiano valenza complessiva di sostanziale sinonimo dei
«motivi di interesse generale» di cui all'art. 42 Cost., comma 3: in
quanto il riferimento normativo alla valutazione degli interessi in
conflitto presuppone un apprezzamento di amplissima discrezionalita'
dell'amministrazione espropriante, assolutamente privo di «elementi e
criteri idonei a delimitarla chiaramente» (Corte costituzionale
38/1966), tanto che non viene descritto alcun parametro, neppure
vaghissimo, al quale una siffatta valutazione debba essere ancorata;
e neppure, viene prefigurato l'ingresso nell'iter decisionale di
interessi privati che tale discrezionalita' possano in qualche misura
indirizzare o soltanto attenuare.
Mentre e' lo stesso art. 42-bis ad escludere che i generici ed
indeterminati scopi di interesse generale - che peraltro si limitano
a riprodurre la regola per cui tutta l'attivita' dell'Amministrazione
e' istituzionalmente e necessariamente- finalizzata ad interessi
generali - coincidano con la causa di pubblica utilita' postulata
dalla Costituzione (e dalla Convenzione) per procedere
all'espropriazione, ritenendo, da un lato, sufficiente per la
ricorrenza dei primi che l'immobile sia occupato e utilizzato da una
pubblica amministrazione: e quindi la stessa situazione di fatto
venutasi a creare per effetto del comportamento contea ius di
quest'ultima. E dall'altro, richiedendo che la determinazione
relativa al loro accertamento, si svolga al solo fine di legittimarla
ex post, peraltro attraverso passaggi conoscitivi e valutativi tutti
interni all'apparato amministrativo, e percio' necessariamente
soggettivi. A differenza dei «motivi di interesse generale», i quali
(Corte costituzionale 95/1966 e 155/1995) «valgono non solo ad
escludere che il provvedimento ablatorio possa perseguire un
interesse meramente privato, ma richiedono anche che esso miri alla
soddisfazione di effettive e specifiche esigenze rilevanti per la
comunita'»; e la cui identificazione deve «rinvenirsi nella stessa
legge che prevede la potesta' ablatoria; come anche in essa puo'
trovarsi definita soltanto la fattispecie astratta (a mezzo di
clausola generale)..» che ne implica poi l'individuazione in concreto
nell'ambito di un procedimento normativamente predeterminato (e
partecipato).
Allorche', dunque, «il programma da realizzare» sia ancora nella
fase progettuale (comportante le opportune valutazioni relative a
collocazione, caratteristiche tecniche, convenienza, tutela
ambientale ecc), precedente alla concreta lesione del diritto
dominicale (Corte costituzionale 90/1966 citata): soltanto cosi'
potendosi garantire che il relativo sacrificio consegua il giusto
equilibrio con le reali esigenze della collettivita', e configurare
il comportamento dell'ente espropriante come rispettoso del principio
di legalita' non solo formale (cfr. art. 97 Cost. ed 1 Prot. All. 1
alla CEDU).
Ma il rapporto di implicazione logica e giuridica tra la fase
della dichiarazione di p.u. ed il successivo trasferimento coattivo,
assolve ad una seconda e non meno rilevante funzione, risalente alla
Legge fondamentale n. 2359 del 1865, art. 13; il quale, onde evitare
che si protragga indefinitamente l'incertezza sulla sorte dei beni
espropriandi, e nel contempo, che si eseguano opere non piu'
rispondenti, per il decorso del tempo all'interesse generale, ha
attribuito ai proprietari una ulteriore garanzia fondamentale, oggi
rispondente al principio di legalita' e tipicita' del procedimento
ablativo, disponendo nel comma 1 che nel provvedimento dichiarativo
della pubblica utilita' dell'opera devono essere fissati quattro
termini (e cioe' quelli di inizio e di compimento della
espropriazione e dei lavori); e stabilendo, nel comma 3, che
«trascorsi i termini, la dichiarazione di pubblica utilita' diventa
inefficace». Sopravvenuta la Costituzione, questa disposizione ha
assunto rilevanza costituzionale, essendo stata collegata dalla Corte
costituzionale (sent 355/1985; 257/1988; 141/1992) direttamente al
principio che, siccome la proprieta' privata puo' essere espropriata
esclusivamente per motivi di interesse generale (art. 42 comma 3),
tale possibilita' e' connaturata solo all'esigenza che
l'espropriazione avvenga per esigenze effettive e specifiche: che
valgano, cioe', a far considerare indispensabile e tempestivo il
sacrificio della proprieta', privata in quel momento; con la
conseguenza che cio' non si verificherebbe ove il trasferimento
coattivo di un bene avvenisse in vista di una futura, ma attualmente
ipotetica utilizzazione al servizio di specifici fini di interesse
generale, ma privi di attualita' e di concretezza.
Da tale quadro normativo, la giurisprudenza tanto ordinaria,
quanto amministrativa, ha tratto le regole, oggi ritenute assolute e
non derogabili:
A) che «la fissazione di tali termini costituisce regola
indefettibile per ogni e qualsiasi procedimento espropriativo» (
cosi' Corte Cost. 257/1988);
B) che la loro omessa fissazione comporta la giuridica
inesistenza della dichiarazione di p.u. con tutte le conseguenze
sopra evidenziate:
prima fra tutte che tale situazione non e' idonea a far
sorgere il potere espropriativo e, dunque, ad affievolire il diritto
soggettivo di proprieta' sui beni espropriandi; e determina una
situazione di carenza di potere che incide (negativamente) sui
successivi atti e comportamenti della procedura ablativa, piu' non
consentendone l'adozione;
C) che tale indicazione (ove non apposta direttamente dalla
legge) deve avvenire nello stesso atto avente «ex lege» valore di
dichiarazione di pubblica utilita' dell'opera, e quindi nell'atto con
cui e' approvato il progetto di opera pubblica; ed il relativo onere
non puo' essere assolto mediante atti successivi, seppure in forma di
convalida e di sanatoria, idonei ad eliminare l'intrinseca
illegittimita' del primo atto;
D) che scaduti inutilmente i termini finali di cui all'art.
13, si esaurisce il potere dell'espropriante di condurre a compimento
il procedimento ablativo; che puo' soltanto ricominciare attraverso
la rinnovazione della dichiarazione di p.u necessariamente
richiedente, come prescritto dalla norma, lo svolgimento ab inizio
del procedimento amministrativo strumentale di cui si e' detto, e
quindi il compimento exnovo di tutte le formalita' previste come
indispensabili dalla legge per l'approvazione di quel progetto, con
la considerazione della situazione attuale (anche dei luoghi), cosi'
come evoluta nelle more.
Nella diversa prospettiva dell'acquisizione coattiva, che intende
riunire sia gli effetti espropriativi, sia la valutazione del
pubblico interesse, anche la garanzia offerta dai termini dell'art.
13 e' destinata a non trovare spazio, ne' tutela effettiva, in quanto
la norma non indica alcun limite temporale entro il quale
l'amministrazione debba esercitare il relativo potere: percio'
esponendo il diritto dominicale su di esso al pericolo
dell'emanazione del provvedimento acquisitivo senza limiti di tempo;
ed accentuando, i seri dubbi di contrasto con l'art. 3 Cost., avanti
manifestati, per il regime discriminatorio provocato tra il
procedimento ordinario in cui l'esposizione e' temporalmente limitata
all'efficacia della dichiarazione di pubblica utilita' (nella
disciplina del T.U., anche a quella del vincolo preordinato
all'esproprio), e quello sanante in cui il bene privato detenuto sine
titolo e' sottoposto in perpetuo al sacrificio dell'espropriazione.
4.2. La nuova operazione sanante - in tutte le fattispecie
individuate dall'art. 42-bis, compresa quella di utilizzazione del
bene senza titolo «in assenza di un valido ed efficace provvedimento
di esproprio» - presenta poi, numerosi ed insuperabili profili di
criticita' - non risolvibili in via ermeneutica - con le norme della
CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo (art. 117 Cost.).
La quale, del resto, come gia' rilevato dalla Corte di Cassazione
(Cass. 18239/2005; 20543/2008), si e' gia' pronunciata in tali sensi,
esaminando sia pure incidentalmente, l'allora vigente art. 43 T.U.,
interamente riprodotto nell'impianto del meccanismo traslativo,
dall'attuale art. 42-bis.
Il suo fulcro qualificante e' ravvisato infatti nella prospettiva
che la restituzione dell'immobile privato utilizzato per scopi di
pubblico interesse, secondo le direttive della Convenzione, possa
essere evitata soltanto a seguito di un legittimo e formale
provvedimento che ne dispone l'acquisizione al patrimonio pubblico; e
che deve, a sua volta, trovare giustificazione non piu' in una
situazione fattuale e/o in una prassi giurisprudenziale, ma in una
previsione legislativa.
Per cui, la coesistenza di detti presupposti e' apparsa al
legislatore necessaria e nel contempo sufficiente per garantire il
«rispetto dei parametri imposti dalla Corte europea e dai principi
costituzionali»: anche per l'obbligo imposto all'autorita'
amministrativa di «valutare gli interessi in conflitto», e percio' di
«mantenere il giusto equilibrio tra le esigenze dell'interesse
generale della comunita' e gli imperativi della salvaguardia dei
diritti fondamentali dell'individuo».
Il quadro normativo prospettato dalla Corte EDU nella
interpretazione delle tre norme dell'art. 1 del Prot. n. 1 - la prima
afferma il principio generale di rispetto della proprieta'; la
seconda consente la privazione della proprieta' solo alle condizioni
indicate; la terza riconosce agli Stati il potere di disciplinare
l'uso dei beni conformita' all'interesse generale - muove dalla
regola che, per determinare se vi sia stata privazione dei beni ai
sensi della seconda norma, occorre non solo verificare se vi sono
stati spossessamene o espropriazione formale, ma anche guardare al di
la' delle apparenze ed analizzare la realta' della concreta
fattispecie, onde stabilire se essa equivalga ad un'espropriazione di
fatto o indiretta, atteso che la CEDU mira a proteggere diritti
«concreti ed effettivi» (tra le tante, Papamichalopoulos c. Grecia,
24 giugno 1993; Acciardi c. Italia, 19 maggio 2005; Cadetta c.
Italia, 15 luglio 2005; De Angelis c. Italia, 21 dicembre 2006;
Pasculli c. Italia, 4 dicembre 2007). Per cui ha dichiarato in
radicale contrasto con la Convenzione il principio espropriazione
indiretta», con la quale il trasferimento della proprieta' del bene
dal privato alla p.a. avviene in virtu' della constatazione della
situazione di illegalita' o illiceita' commessa dalla stessa
amministrazione, con l'effetto di convalidarla, di consentire a
quest'ultima di trarne vantaggio, nonche' di passare oltre le regole
fissate in materia di espropriazione, con il rischio di un risultato
imprevedibile o arbitrario per gli interessati.
E nella categoria suddetta la Corte ha sistematicamente inserito
non soltanto l'ipotesi corrispondente alla c.d. occupazione
espropriativa, ma tutte indistintamente le fattispecie (sent. 19
maggio 2005, Acciardi) di «perdita di ogni disponibilita'
dell'immobile combinata con l'impossibilita' di porvi rimedio, e con
conseguenze assai gravi per il proprietario che subisce una
espropriazione di fatto incompatibili con il suo diritto al rispetto
dei propri beni»: ritenendo ininfluente, «che una tale vicenda sia
giustificata soltanto dalla giurisprudenza, ovvero sia consentita
mediante disposizioni legislative, come e' avvenuto con la L. n. 458
del 1988, art. 3 ovvero da ultimo con l'art. 43 del T.U., in quanto
il principio di legalita' non significa affatto esistenza di una
norma ddi legge che consenta l'espropriazione indiretta, bensi'
esistenza di norme giuridiche interne sufficientemente accessibili,
precise e prevedibili» Con la conseguenza che il supporto di «una
base legale non e' sufficiente a soddisfare al principio di
legalita'» e che «e' utile porre particolare attenzione sulla
questione della qualita' della legge» (sent. Acciardi cit. 75;
Scordino, 12 ottobre 2005, cit. 87 ed 88). E quella ulteriore che al
nuovo istituto del T.U. i giudici di Strasburgo hanno mosso
l'addebito di non aver neppure escluso, come aveva fatto la
giurisprudenza ordinaria, che l'espropriazione indiretta potesse
applicarsi quando la dichiarazione di p.u. sia stata annullata,
avendo previsto «che anche in assenza della dichiarazione di p.u.
qualsiasi terreno possa essere acquisito al patrimonio pubblico, se
il giudice decide di non ordinare la restituzione del terreno
occupato e trasformato dall'amministrazione» (CEDU, Sciarrotta, 12
gennaio 2006; Genovese, 2 febbraio 2006; Serrao, 13 ottobre 2005;
Scordino, 12 ottobre 2005, par. 90; S.A.S. Certo e/Italia, cit., par.
76-80).
In tale ottica diviene del tutto indifferente per escludere la
ricorrenza di espropriazioni di fatto incompatibili con il diritto al
rispetto dei propri beni e ripristinare la legalita', l'adozione
postuma di un provvedimento con pretesi effetti sananti, perche' il
requisito della legalita' secondo la Corte Edu non permette «in
generale all'amministrazione di occupare un terreno e di trasformarlo
irreversibilmente, di tal maniera da considerarlo acquisito al
patrimonio pubblico, senza che contestualmente un provvedimento
formale che dichiari il trasferimento di proprieta' sia stato
emanato» (Cfr. in particolare decisioni 17 maggio 2005, Pasculli; 19
maggio 2005, Acciardi e Campagna; 11 ottobre 2005, La Rosa; 11
ottobre 2005, Chiro'; 12 ottobre 2005, Scordino; 13 ottobre 2005,
Serrao; 7 novembre 2005, Istituto diocesano; 12 gennaio 2006,
Sciarrotta; 23 febbraio 2006, S.A.S.; 20 aprile 2006, De Sciscio;
gennaio 2009, Sotira).
Il contrasto con la Convenzione dipende, allora, dal
riconoscimento nel nostro ordinamento - «en vertu d'un principe
jurisprudentiel ou d'un texte de loi comme l'article 43» - di effetti
traslativi all'occupazione e successiva modifica meramente fattuale
di un terreno senza che sussista un atto formale che dichiari il
trasferimento della proprieta' «intervenant au plus tard au moment»
in cui il proprietario ha perduto ogni potere sull'immobile: cosi'
come, del resto, oltre un secolo prima aveva richiesto la L. n. 2359
del 1865, art. 50.
Percio' inducendola a concludere che ogni forma di espropriazione
indiretta in ogni caso «n'a pas pour effet de regulariser la
situation denoncee», ne' tanto meno quello di costituire
«un'alternativa ad un'espropriazione in buona e dovuta forma» (CEDU,
4, 15 novembre 2005, La Rosa; 3, 12 gennaio 2006, Sciarrotta, 1, 23
febbraio 2006, Immobiliare Cerro).
La «legalizzazione dell'illegale» non e' conclusivamente
consentita dalla giurisprudenza di Strasburgo neppure ad una norma di
legge, ne' tanto meno ad un provvedimento amministrativo di essa
attuativo, quale e' quello che disponga l'acquisizione sanante (Usci,
22 giugno 2006; Cerro sas, 23 maggio 2006; De Sciscio, 20 aprile
2006; Dominici, 15 febbraio 2006; Serrao, 13 gennaio 2006;
Sciarrotta, 12 gennaio 2006; Carletta, 15 luglio 2005; Scordino, 17
maggio 2005); ed in termini non dissimili si e' espressa anche Corte
costituzionale n. 293/2010, per la quale «non e' affatto sicuro che
la mera trasposizione in legge di un istituto, in astratto
suscettibile di perpetuare le stesse negative conseguenze
dell'espropriazione indiretta, sia sufficiente di per se' a risolvere
il grave vulnus al principio di legalita'». Sicche' il ritorno alla
via legale, come specificamente suggerito dalla stessa Corte Edu
(sent. 6 marzo 2007, Scordino 3, cfr. anche, I, 13 luglio 2006,
Zaffuto; 30 marzo 2006, Gianni) allo Stato italiano onde evitare
ulteriori condanne, deve essere perseguito non regolarizzando ex post
occupazioni gia' illegittime, bensi', anzitutto, in via preventiva,
consentendo alla p.a. di immettersi nella proprieta' privata soltanto
se - e dopocche' - abbia gia' conseguito un legittimo titolo che
autorizzi l'ingerenza; ed in caso in cui cio' non sia avvenuto
«eliminando gli ostacoli giuridici che impediscono sistematicamente e
per principio la restituzione del terreno», peraltro «in analogia con
altri ordinamenti europei» (Corte Cost. 293/2010 cit.).
Il principio di legalita' non e', infine, recuperabile in forza
dei bilanciamenti e delle comparazioni tra interessi pubblici e
privati devoluti dalla norma all'autorita' amministrativa che dispone
l'acquisizione: avendo la Corte EDU affermato fin dalla nota
decisione Belvedere - Alberghiera del 30 maggio 2000, nella quale
l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sent. 1/1996) aveva dato
precedenza all'interesse pubblico specifico della collettivita' alla
realizzazione di un'opera idrica per la stessa indispensabile (seppur
mancante di dichiarazione di p.u. perche' annullata dallo stesso
giudice amministrativo), che la necessita' di esaminare tale
questione e' inattuabile in caso di ingerenza illegittima nella
proprieta' (in cui la Convenzione privilegia quello privato,
postulandone comunque la reintegrazione), ma «puo' porsi soltanto a
condizione che l'ingerenza litigiosa abbia osservato il principio di
legalita' e non sia risultata arbitraria». Sicche' ha egualmente
condannato lo Stato italiano non certamente per l'assenza (allora)
nell'ordinamento interno di una norma con valore sanante della
illegittimita'. della procedura ablativa, ma perche' «la decisione
del Consiglio di Stato aveva privato la ricorrente della possibilita'
di ottenere la restituzione del suo terreno... che per essere
compatibile con l'art. 1 del Protocollo deve essere attuata per causa
di pubblica utilita' e nelle condizioni previste dalla legge e dai
principi di diritto internazionale» ( 54 e 55; nonche' Ucci c.
Italia, 22 giugno 2006). E d'altra parte, poiche' la norma
attribuisce ad uno dei due portatori dell'interesse in conflitto -
ovvero alla P.A. responsabile dell'illecito ed interessata alla
acquisizioni dell'immobile - il potere di comparare gli interessi
suddetti (CEDU, 9 febbraio 2006, renna), e, quindi la scelta di
restituirlo ovvero acquisirlo al proprio patrimonio indisponibile, il
suo assetto reale noi dipende piu' (neppure) dalla sua (oggettiva)
trasformazione in un bene demaniale o patrimoniale indisponibile, ma
viene affidato esclusivamente alla volonta' dell'amministrazione -
per quanto detto, senza neppure limiti temporali - di ricorrere al
nuovo istituto; nonche', in caso di impugnazione del provvedimento di
acquisizione, alla pronuncia del giudice amministrativo di
consentirne o escluderne la restituzione: con conseguente incertezza
ed imprevedibilita' della situazione giuridica fino al momento della
sentenza definitiva. Il che ha indotto i giudici di Strasburgo a
rilevare, con la piu' qualificata dottrina, che con tale regime
scompare anche quel minimo di prevedibilita' che un sistema normativo
e' tenuto ad assicurare: attesa l'inidoneita' della base legale su
cui si fonda la consentita compromissione della proprieta' ad
assicurare il sufficiente grado di certezza postulato dalla
Convenzione attraverso «l'esistenza di norme giuridiche interne
sufficientemente accessibili, precise e dagli effetti prevedibili»; e
rende l'istituto nuovamente incompatibile con la Convenzione «non
potendosi escludere il rischio di un risultato imprevedibile G
arbitrario» (CEDU, 2, 28 giugno 2011, De Caterina; 20 aprile 2006, De
Sciscio; 3, 2 febbraio 2006, Genovese).
La Corte europea, pur non escludendo che in materia civile una
nuova normativapossa avere efficacia retroattiva, ha ripetutamente
considerato lecita l'applicazione dello ius superveniens in causa
soltanto in presenza di «imperieux motifs d'interet general»; ed
affermato che in ogni altro caso essa si concreta nella violazione
dei principio di legalita' nonche' del diritto ad un processo equo
perche' consente al potere legislativo di introdurre nuove
disposizioni specificamente dirette ad influire sull'esito di un
giudizio gia' in corso (in cui e' parte un'amministrazione pubblica),
ed induce il giudice a decisioni su base diversa da quella alla quale
la controparte poteva legittimamente aspirare al momento di
introduzione della lite (cfr. sentenza della Grande Chambre, 28
ottobre 1999, Zielinski; nonche' ForrerNiedenthal, 20 febbraio 2003,
proprio in materia di espropriazione per p.u.; OGIS, 27 maggio 2004;
nonche' Scordino c/Italia, 29 luglio 2004, 78).
Questa situazione - gia' posta in evidenza dalla Cassazione
vigente Pincostituzionale art. 43 T.U. (Cass. 21867/2011; 20543/2008;
sez. un. 26732/2007) - si e' riproposta proprio per effetto dell'art.
42-bis, il quale, malgrado la precisazione del primo comma che l'atto
di acquisizione e' destinato a non operare retroattivamente (rivolta
a rispondere ad uno dei rilievi espressi da Corte costituzionale n.
293 del 2010), con la menzionata disposizione ha confermato la
possibilita' dell'amministrazione di utilizzare il provvedimento
sanante ex tunc, ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed
anche se vi e' gia' stato un provvedimento di acquisizione
successivamente ritirato o annullato: in conformita' del resto alla
finalita' di attribuire alle amministrazioni occupanti una legale via
di uscita dalle situazioni di illegalita' venutesi a verificare nel
corso degli anni (anche pregressi).
4.3. Infine, neanche l'indennizzo/risarcimento stabilito quale
corrispettivo dell'acquisizione risulta esente da dubbi di
legittimita'. costituzionale, in quanto l'art. 42-bis, comma 3, ne
fissa i seguenti parametri: «Salvi i casi in cui la legge disponga
altrimenti, l'indennizzo per il pregiudizio patrimoniale di cui al
comma 1 e' determinato in misura corrispondente al valore venale del
bene utilizzato per scopi di pubblica utilita' e, se l'occupazione
riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni
dell'art. 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7».
Sennonche' la Corte costituzionale (sent. 369/1996), nel
dichiarare l'incostituzionalita' della L. n. 549 del 1995, art. 1,
comma 65, che aveva equiparato l'entita' del risarcimento del danno
da occupazione acquisitiva a quella dell'indennizzo espropriativo,
aveva affermato che «.. e' innegabile, in primo luogo, la violazione
che ne deriva del precetto di eguaglianza, stante la radicale
diversita' strutturale e funzionale delle obbligazioni cosi'
comparate. Infatti, mentre la misura dell'indennizzo - obbligazione
ex lege per atto legittimo - costituisce il punto di equilibrio tra
interesse pubblico alla realizzazione dell'opera e interesse del
privato alla conservazione del bene, la misura del risarcimento -
obbligazione ex delicto - deve realizzare il diverso equilibrio tra
l'interesse pubblico al mantenimento dell'opera gia' realizzata e la
reazione dell'ordinamento a tutela della legalita' violata per
effetto della manipolazione-distruzione illecita del bene privato. E
quindi sotto il profilo' della ragionevolezza intrinseca (ex art. 3
Cost.), poiche' nella occupazione appropriativa l'interesse pubblico
e' gia' essenzialmente soddisfatto dalla non restituibilita' del bene
e dalla conservazione dell'opera pubblica, la parificazione del
quantum risarcitorio alla misura dell'indennita' si prospetta come un
di piu' che sbilancia il contemperamento tra i contrapposti
interessi, pubblico e privato, in eccessivo favore del primo»
(considerazioni analoghe si rinvengono nelle decisioni 442/1993;
188/1995; 148/1999; 349/2007).
Nel caso, i ricordati principi sono stati disattesi sotto diversi
profili, in quanto disponendo che detto indennizzo debba essere
sempre e comunque commisurato «al valore venale del bene utilizzato»,
il legislatore:
a) attribuisce ai proprietari interessati da un provvedimento
di acquisizione sanante un trattamento deteriore rispetto a quelli,
che in mancanza di detto provvedimento sono ammessi a chiedere la
restituzione dell'immobile insieme al risarcimento del danno, pur
quando destinatari di una medesima occupazione abusiva in radice
(c.d. usurpativa): in quanto soltanto a questi ultimi e' consentito
ottenere l'intero risarcimento del danno sofferto, in base ai
parametri dell'art. 2043 cod. civ. del danno emergente e del lucro
cessante (utili, occasioni e vantaggi che il proprietario provi di
aver perduto dalla mancata disponibilita' del bene: Cass. 14609/2012;
4052/2009; 2746/2008; 15710/2001; 1196/1986; 3590/1983);
b) tale trattamento resta inferiore pur nel confronto con
l'espropriazione legittima dello stesso immobile, in quanto, ove
avente destinazione edificatoria, non e' riconosciuto l'aumento del
10% di cui al T.U., art. 37, comma 2 (non richiamato dalla norma), se
l'accordo/ di cessione e' stato concluso, se non e' stato concluso
per fatto non:: imputabile all'espropriato o se l'indennita'
provvisoria attualizzata e' inferiore all'80% di quella definitiva: e
quindi a maggior ragione se nessuna indennita' viene offerta, come e'
peculiare del procedimento di cui all'art. 42-bis. Mentre se il
terreno e' agricolo non e' applicabile il precedente art. 40, comma 1
che impone di tener conto (Cfr. Corte costituzionale 181/2011) delle
colture effettivamente praticate sul fondo e "del valore dei
manufatti edilizi legittimamente realizzati, anche in relazione
all'esercizio dell'azienda agricola» (Cass. 23967/2010; 10217/2009;
11782/2007; 4848/1998;
c) incorre in una disparita' piu' palese con il regime di
quest'ultima laddove non considera affatto l'ipotesi di
espropriazione parziale; e non consente di tener conto della
diminuzione di valore del fondo residuo, invece indennizzata fin
dalla L. n. 2359 del 1865, art. 40 (anche nelle ipotesi di
occupazione appropriativa: Cass. 8197/2012; 591/2008; 24435/2006),
ora trasfuso nell'art. 33 del T.U.;
d) ha trasformato il precedente regime risarcitorio in un
indennizzo derivante da atto lecito, che di conseguenza assume natura
di debito di valuta non automaticamente soggetto alla rivalutazione
monetaria (art. 1224 c.c., comma 2). A differenza del risarcimento da
espropriazione e/o occupazione illegittime, costituente credito di
valore, che deve essere liquidato alla stregua dei valori monetari
corrispondenti al momento della relativa pronuncia, sicche' il
giudice deve tenere conto della svalutazione monetaria sopravvenuta
fino alla decisione, anche di ufficio, a prescindere dalla prova
della sussistenza di uno specifico pregiudizio dell'interessato
dipendente dal mancato tempestivo conseguimento dell'indennizzo
medesimo (tra tante, Cass. 1889/2013; 4010/2006; 9711/2004).
Tale natura risarcitoria sembra invece mantenuta dall'art.
42-bis, comma 3, al corrispettivo per il periodo di occupazione
illegittima antecedente al provvedimento di acquisizione («Per il
periodo di occupazione senza titolo e' computato a titolo
risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di
una diversa entita' del danno, l'interesse del cinque per cento annuo
sul valore determinato ai sensi del presente comma): tuttavia pur
esso determinato in base ad un parametro riduttivo rispetto a quelli
cui e' commisurato l'analogo indennizzo per l'occupazione temporanea
dell'immobile. In quanto:
a) il parametro base e' costituito dall'interesse del cinque
per cento annuo sui valore venale dell'immobile stimato ai fini
dell'indennizzo, percio' corrispondente a circa 1/20 del suo valore
annuo. Laddove l'art. 50 del T.U., recependo analoga disposizione
contenuta nella L. n. 865 del 1971, art. 20 stabilisce in tutti i
casi di occupazione legittima di un immobile che «e' dovuta al
proprietario una indennita' per ogni anno pari ad un dodicesimo di
quanto sarebbe dovuto nel caso di esproprio dell'area e, per ogni
mese o frazione di mese, una indennita' pari ad un dodicesimo di
quella annua»: percio' corrispondente ad una redditivita'
predeterminata piu' elevata misura percentuale dell'8,33% all'anno
sul valore venale dell'immobile;
b) il richiamo all'indennita' di espropriazione consente
altresi' l'applicazione del principio consolidato nella
giurisprudenza di illegittimita' (Cass. 21352/2004; sez. un.
10502/2012; 24303/2010), che nell'ipotesi di espropriazione parziale
la percentuale suddetta vada calcolata sull'indennita' di
espropriazione computata tenendo conto anche del decremento di valore
subito dalla parte dell'immobile rimasta in proprieta'
dell'espropriato: invece non autorizzato dal parametro rigido
contenuto nell'art. 42-bis, comma 3.
Per cui anche il ristoro patrimoniale attribuito dalla norma non
consente di escludere il rilievo piu' volte rivolto dalla Corte EDU
al legislatore nazionale, che pure il meccanismo riduttivo di
determinazione dell'indennizzo/risarcimento da occupazione senza
titolo consente all'espropriante, che omette di svolgere il
procedimento previsto dalla legge, di avvantaggiarsi ulteriormente
del suo comportamento illegittimo, esonerandolo dai corrispondere una
porzione del ristoro dovuto nel caso di occupazione/espropriazione
legittime; percio' non favorendo la buona amministrazione e non
contribuendo a prevenire episodi di illegalita'.
5. Conclusivamente, vanno dichiarate rilevanti, e non
manifestamente infondate le questioni di legittimita' costituzionale
riguardanti il decreto del Presidente della Repubblica n. 327 del
2001, art. 42-bis:
per contrasto con il precetto di eguaglianza nonche' di
ragionevolezza intrinseca di cui all'art. 3 Cost. sotto ciascuno dei
diversi profili di cui in motivazione, involgenti anche l'art. 24
Cost.;
per contrasto con i precetti e le garanzie posti dall'art. 42
Cost, a tutela della proprieta' privata, nonche' con il principio di
legalita' , dell'azione amministrativa contenuto negli art. 97 e 113
Cost. sotto i diversi profili di cui in motivazione;
per contrasto con l'art. 117 Cost., comma 1, anche alla luce
dell'art. 6 e dell'art. 1 del primo prot. add. della Convenzione
europea dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, sotto i
diversi profili di cui in motivazione, con cui se ne e' evidenziata
la disciplina lesiva del diritto di proprieta', nonche' del diritto
al rispetto dei propri beni, in violazione dei vincoli derivanti
dagli obblighi internazionali.
P. Q. M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sede di Roma,
sez. II^, non definitivamente pronunciando sul ricorso e i motivi
aggiunti, di cui in premessa, cosi' provvede:
1) dichiara rilevante e non manifestamente infondata la
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 42-bis del T.U.
delle Espropriazioni per Pubblica Utilita' approvato con decreto del
Presidente della Repubblica n. 327 del 2001, introdotto dall'art. 34
del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito con modificazioni
dalla L. 15 luglio 2011, n. 111, per contrasto, nei sensi di cui in
motivazione, con gli artt. 3, 24, 42, 97, Costituzione, nonche' per
contrasto con l'art. 117 cost., comma 1, anche alla luce dell'art. 6
e dell'art. 1 del primo Protocollo Addizionale della Convenzione
Europea dei Diritti dell'Uomo e delle Liberta' Fondamentali, resa
esecutiva con L. 4 agosto 1955, n. 848;
2) dispone la sospensione del presente giudizio e la
trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;
3) rinvia ogni ulteriore statuizione in rito, nel merito e
sulle spese di lite all'esito del giudizio incidentale promosso con
la presente pronuncia;
4) dispone che la presente ordinanza sia notificata, a cura
della Segreteria, alle parti costituite e al Presidente del Consiglio
dei Ministri, ed inoltre comunicata al Presidente della Camera dei
Deputati e al Presidente del Senato della Repubblica.
Cosi' deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7
maggio 2014 con l'intervento dei magistrati:
Luigi Tosti, Presidente.
Salvatore Mezzacapo, Consigliere.
Silvia Martino, Consigliere, Estensore.
Il Presidente: Tosti
L'Estensore: Martino