Consenso all'uso dei cookie

Tu sei qui

Demolizione opere abusive e ripristino stato luoghi - Cons. Stato, sez. VI, sent. n. 16 del 05.01.2015

Pubblico
Lunedì, 5 Gennaio, 2015 - 01:00

 
Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), sentenza n. 16 del 5 gennaio 2015, su demolizione di opere edilizie e ripristino dello stato dei luoghi
 
N. 00016/2015REG.PROV.COLL.
 
N. 02800/2014 REG.RIC.
 
 
REPUBBLICA ITALIANA
 
 
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 
Il Consiglio di Stato
 
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
 
ha pronunciato la presente
SENTENZA
 
sul ricorso numero di registro generale 2800 del 2014, proposto da: 
Bongiovanni Alberto quale Curatore del Fallimento i Pasotti Srl, rappresentato e difeso dagli avv. Giuliano Boschetti, Elena Paolini, con domicilio eletto presso Studio Placidi in Roma, Via Cosseria, 2; 
contro
Comune di Minerbio, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Federico Gualandi, con domicilio eletto presso Alfredo Placidi in Roma, Via Cosseria, 2; Responsabile P.T. Settore Pianificazione Gestione, Sviluppo del Territorio del Comune di Minerbio; 
nei confronti di
Giuseppe Spallone, Stefania Dott.Ssa Carlomagno, Fausto Centonze; 
per la riforma
della sentenza del T.A.R. EMILIA-ROMAGNA - BOLOGNA: SEZIONE I n. 00837/2013, resa tra le parti, concernente demolizione di opere edilizie e ripristino dello stato dei luoghi
 
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Minerbio;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 4 dicembre 2014 il Cons. Sergio De Felice e udito per le parti l’ avvocato Gualandi;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
 
FATTO
La società I Pasotti s.r.l. (dichiarata fallita in corso di causa e con costituzione, in data 25 settembre 2012, del Fallimento in persona del curatore), proprietaria dell’immobile, e il direttore dei lavori Fausto Centonze agivano dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia-Romagna per l’annullamento: della ordinanza adottata dal Comune di Minerbio in data 10 giugno 2011, prot. n.9139 recante la “declaratoria di inammissibilità e il rigetto della d.i.a”. prot. n. 3242 del 2 marzo 2011; dell’ordinanza del Comune di Minerbio prot. n. 9956 del 23 giugno 2011, recante l’ordine di immediata sospensione dei lavori in corso di esecuzione in via Savenella n. 155 (ex nn. 157/159/161); dell’ordinanza del Comune di Minerbio prot. n. 10580 del 6 luglio 2011, recante l’ingiunzione di demolizione delle opere edilizie abusivamente realizzate in via Savenella n. 155 (ex nn. 157/159/161).
Era avvenuto che la società aveva presentato una d.i.a. in data 2 marzo 2011, prot. n. 3242, quale variante alla d.i.a. prot. n. 5523/2008 per un intervento edilizio in corso di esecuzione presso un fabbricato in via Savenella n. 155; il Comune di Minerbio rilevava che la d.i.a. prot. n. 5523/2008 era stata dichiarata inammissibile con ordinanza del 21 maggio 2008 e che il TAR Emilia-Romagna aveva respinto il ricorso proposto avverso detta ordinanza (con la sentenza n. 5486 in data 8 giugno 2010), sicché ne faceva derivare l’inammissibilità anche della d.i.a. prot. n. 3242/2011 e in ragione di ciò ordinava alla ditta “I Pasotti S.r.l.” di non effettuare il relativo intervento, ai sensi dell’art. 11, comma 2, della legge reg. n. 31 del 2002; deve precisarsi che a sua volta la d.i.a. del 2008 si aggiungeva a denunce di inizio di attività del 2003 e del 2005.
Accertato, poi, in data 15 giugno 2011 – a mezzo di sopralluogo compiuto dall’Ufficio tecnico comunale – che i lavori ivi eseguiti risultavano privi di titolo abilitativo, l’Amministrazione ordinava alla ditta “I Pasotti S.r.l.” (proprietaria dell’immobile), al direttore dei lavori ing. Fausto Centonze e alla ditta appaltatrice l’immediata sospensione dei lavori.
Infine, ritenendo ascrivibili le opere abusive alla fattispecie di cui all’art. 13 della legge reg. n. 23 del 2004, l’Amministrazione ingiungeva ai medesimi soggetti la demolizione delle opere eseguite sine titulo e il ripristino dello stato dei luoghi.
Avverso tali atti quindi proponevano impugnativa la ditta “I Pasotti S.r.l.” e l’ing. Fausto Centonze; lamentavano essere state erroneamente qualificate abusive opere da considerare in realtà regolari a seguito dell’intervenuta determinazione di irrogare la sanzione pecuniaria di cui all’art. 10, comma 2, seconda parte, della legge reg. n. 23 del 2004, che aveva fatto riacquisire validità ed efficacia alla iniziale d.i.a. del 2003 e a quella successiva del 2005; rimproveravano, inoltre, all’Amministrazione comunale di essere rimasta inerte dopo la pronuncia del TAR del 2010 e di avere anche in altri modi favorito negli interessati il convincimento che i lavori potessero regolarmente proseguire, tanto da non avere adottato nessun provvedimento inibitorio né avere sollevato alcuna informale obiezione dopo un’ulteriore d.i.a. del 2009 ed avere opposto l’abusività dell’intervento solo a lavori ultimati e in conseguenza di una d.i.a. recante una variante minore, indice di una condotta contraddittoria, illogica, lesiva dei principi di imparzialità e buona amministrazione, nonché pregiudizievole del legittimo affidamento dei privati.
Il giudice di primo grado rigettava il ricorso ritenendolo infondato, per avere l’Amministrazione comunale adottato determinazioni coerenti con il giudicato formatosi sulla sentenza n. 5486 in data 8 giugno 2010 della Sezione II del medesimo Tribunale.
La sentenza di primo grado oggetto di appello si richiamava alla precedente sentenza dello stesso Tribunale (n.5486 del 2010) nella quale, su pronuncia sull’ordinanza comunale di divieto di esecuzione dell’intervento edilizio previsto dalla d.i.a. prot. n. 5523/2008 ed in ordine alla denunciata contraddittorietà del provvedimento inibitorio con la pendente procedura di applicazione della sanzione pecuniaria ex art. 10, comma 2, seconda parte, della legge reg. n. 23 del 2004, così si esprimeva il giudice amministrativo: “…Ad avviso del Collegio: - non c’è dubbio che la demolizione del vecchio edificio esuli dalla categoria del restauro e qualifichi l’intervento almeno come ristrutturazione (quando la ricostruzione è fedele), se non quale nuova costruzione (quando non lo è): in entrambi i casi secondo il PRG vigente occorre – come è pacifico in causa – il p.d.c., e tale rilievo non contraddice affatto l’ammissione alla procedura sanante di cui sopra, che non presuppone l’identità del titolo, e non impedisce al Comune di ritenere necessario un titolo diverso, idoneo agli interventi da prescrivere o già realizzati; - il vincolo di rispetto fluviale (nella fascia di 10 mt.) comporta poi una inedificabilità assoluta e preclude ogni nuova costruzione, per cui è dirimente la qualificazione dell’intervento, essendo assentibile con p.d.c. la sola ristrutturazione, su parere dell’autorità di tutela. Diversamente, la inderogabilità del vincolo impedirebbe l’intervento, privando di ogni causa il pagamento della sanzione applicata, ed imponendone la restituzione. Allo stato, comunque, il diniego di DIA appare in ogni caso legittimo; - è comunque assorbente, allo stato, a parte le ulteriori carenze documentali, eventualmente regolarizzabili, la mancanza della asseverazione di conformità (o della sottoscrizione del professionista in calce alla stessa), che rende del tutto inammissibile la DIA a prescindere dai sopraenunciati profili sostanziali, ed è rilevante, quindi, perché, trattandosi di elemento essenziale della DIA stessa, la carenza impedisce la formazione del titolo abilitativo “per silentium”, invocata dalla ricorrente con il secondo motivo.I rilievi di cui sopra qualificano l’impugnato diniego quale atto assolutamente dovuto e vincolato nel contenuto …”.
Le denunce su cui si era pronunciato il primo giudice quindi seguivano precedenti titoli, sempre a mezzo denuncia di inizio di attività, la prima presentata nell’anno 2003 e la seconda nell’anno 2005; secondo il primo giudice, era legittimo il comportamento del Comune in quanto la ulteriore denuncia presentata nell’anno 2008 era inficiata dai medesimi vizi dei titoli originari, sussistendo vari motivi negativi o ostativi, tra i quali, oltre vincoli di rispetto fluviali, carenze documentali, mancanza di asseverazione di conformità e sottoscrizione del professionista, soprattutto la configurabilità delle opere come “almeno come ristrutturazione….se non quale nuova costruzione”.
Secondo la sentenza appellata, quindi, correttamente l’Amministrazione comunale non poteva che prendere atto dell’assenza di un titolo abilitativo che legittimasse l’intervento edilizio oggetto della d.i.a. prot. n. 5523/2008. Tale titolo avrebbe dovuto acquisire in astratto la forma del «permesso di costruire» e tuttavia difettava in concreto anche solo di una d.i.a. provvista dei requisiti formali necessari.
Tale carenza impediva che un’ulteriore attività edificatoria potesse innestarsi sulla precedente attraverso variante oggetto di altra d.i.a. e – questo è il passaggio decisivo - ciò pur in pendenza della procedura di monetizzazione del pregresso abuso ai sensi dell’art. 10, comma 2, seconda parte, della legge reg. n. 23 del 2004, che non avrebbe potuto in ogni caso regolarizzare opere effettuate in una fase successiva alla richiesta di ammissione alla procedura sanante – neppure medio tempore perfezionatasi – sulla base di titoli edilizi (illegittimi) autonomi dai precedenti ed espressione di un diverso (sia pure in parte) progetto.
Secondo il primo giudice: a) non rilevava la mancata emissione di appositi provvedimenti inibitori subito dopo la pubblicazione della sentenza n. 5486/2010, scaturendo invero da tale decisione l’automatica preclusione al proseguimento dei lavori, preclusione di cui i ricorrenti dovevano essere ben consapevoli a fronte dell’intervenuta caducazione del titolo abilitativo costituitosi con la presentazione della d.i.a. prot. n. 5523/2008 e dell’insussistenza oltretutto di un provvedimento di sanatoria relativo alla fase precedente (per non essersi ancora concluso il relativo iter); b) non poteva avere alcun effetto invalidante la addotta tardività dell’ingiunzione di demolizione e né alcun affidamento poteva derivare sulla regolarità dell’intervento edilizio, per il carattere permanente dell’illecito edilizio che non pone limiti temporali all’esercizio del potere repressivo dell’Amministrazione.
Avverso tale sentenza ha proposto appello il Fallimento in persona del curatore fallimentare della società I Pasotti s.r.l. , che con il gravame ha ricostruito la vicenda fattuale, desumendone la contraddittorietà del comportamento dell’amministrazione comunale; successivamente ha riportato la appellata sentenza n.837 del 2013 del Tar Emilia-Romagna; ha quindi riportato i fatti successivi alla sentenza, tra cui l’acquisizione; ha dedotto i vizi della sentenza impugnata, consistenti, in sintesi: nella erroneità sulla conclusione di abusività delle opere, in ragione della avvenuta attivazione della procedura sanante ai sensi dell’art. 10 comma 2 della l.r.23 del 2004, comprovata da diverse ed elencate circostanze fattuali, idonee a dimostrare la scelta in tal senso da parte del Comune; nella erroneità per mancata rilevazione del comportamento concludente e contraddittorio tenuto dall’amministrazione comunale; nel mancato apprezzamento in ordine alla tardiva comunicazione del provvedimento di rigetto della DIA; nella omessa rilevazione dell’avvenuta ultimazione dei lavori.
L’appellante fa presente che pur a seguito della sentenza n.4472 del 2008 (con cui il primo giudice accoglieva la domanda proposta avverso la sanzione irrogata dal Comune per incompetenza perché competente a determinare il valore la Commissione Provinciale per i valori agricoli medi) e pur dopo l’ordine di non effettuare i lavori a seguito di d.i.a. (n.6577 del 21 maggio 2008 impugnato in primo grado con ricorso 767 del 2008, poi definito con la menzionata sentenza n.5486 del 2010) il Comune aveva consentito (e avallato, ingenerando affidamento incolpevole) il procedimento di sanatoria prevista dalla legge regionale.
Il Comune di Minerbio si è costituito con memoria nella quale chiede il rigetto dell’appello, ribadendo la legittimità del suo operato; deduce l’abusività delle opere, perché in quella zona era ammesso esclusivamente un intervento di risanamento conservativo e restauro, mentre non erano ammesse nuove costruzioni; deduce che la sentenza n.5486 del 2010, citata dalla sentenza appellata, è passata in giudicato perché non appellata; tale sentenza (la n.5486 del 2010) aveva precisato come fosse legittimo il diniego di DIA per effettuare una nuova costruzione (con riferimento alla d.i.a. 5523 del 2008); lamenta che l’appellante non ha versato l’intera somma di quanto determinato dalla Commissione Provinciale (ha versato circa 260.000 euro a fronte di circa 297.000); deduce che, in modo non corretto, la parte appellante, pur dopo la sentenza negativa n.5486 del 2010, aveva completato e proseguito i lavori, aveva venduto due delle dieci unità immobiliari, aveva presentato in data 2 marzo 2011 una DIA in variante minore e aveva depositato in data 5 marzo 2011 la dichiarazione di fine lavori.
Nell’appello, tra l’altro, vengono indicati anche i fatti successivi ai fatti di causa, riferendo che con atto in data 11 febbraio 2014, comunicandolo in data 18 febbraio 2014, il Comune di Minerbio ha adottato l’ acquisizione sul fabbricato realizzato (tale atto è stato impugnato, si riferisce, con separato ricorso giurisdizionale al Tar Emilia-Romagna, sede di Bologna).
Nella memoria riepilogativa depositata dalla parte appellante in data 3 ottobre 2014, oltre a esporre nuovamente i fatti e le difese, si espone che il Tar Emilia-Romagna, sede di Bologna, in data 11 luglio 2014 con sentenza n.753 del 2014 ha accolto il ricorso proposto dalla stessa appellante avverso la determinazione comunale 186 dell8 ottobre 2009 di approvare la determina n.79/2009 del 4 giugno 2009 sul valore venale dell’immobile operata dalla Commissione Provinciale Valori Agricoli Medi ai fini dell’applicazione della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 10, comma 2 della l.r. 23 del 2004, ritenendo spropositato il calcolo operato dalla Commissione, dovendosi escludere i locali interrati, pacificamente non realizzati, con conseguente consistente riduzione della sanzione irrogata.
In data 22 ottobre 2014 la difesa del Comune ha depositato la sentenza con cui il Tar Emilia-Romagna sezione I, n.858 del 17 settembre 2014 con la quale, pronunciando su ricorso del Comune di Minerbio proposto avverso la delibera della Commissione provinciale per i valori agricoli medi n.79/2009 (del 4 giugno 2009) lo accoglieva nel senso di dover tenere conto del “valore reale dell’immobile allo stato precedente”.
Alla udienza pubblica del 4 dicembre 2014 la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
Il giudice di primo grado, in estrema sintesi, ha ritenuto che si era in assenza del primo idoneo titolo abilitativo, perché insufficiente la denuncia di inizio attività e necessario il permesso di costruire in caso di attività di ristrutturazione, se non di nuova costruzione, perché in fatto si erano travalicati i limiti del restauro e risanamento conservativo.
Conseguentemente, la successiva variante alla d.i.a., che si innestava sul titolo precedente (in realtà su una pluralità di titoli precedenti) era a sua volta inidonea a configurare un corretto titolo abilitativo; non rilevava in senso positivo la circostanza che era pendente la procedura di monetizzazione del pregresso abuso ai sensi dell’art. 10, comma 2, seconda parte, che non avrebbe potuto in ogni caso regolarizzare opere effettuate in una fase successiva alla richiesta di ammissione alla procedura sanante.
L’appello tende a contrastare tale conclusione, asserendo che il comportamento complessivo dell’amministrazione comunale si sia concretato in un avallo sostanziale alla procedura di sanatoria sopra menzionata e che il completamento delle opere, sulla base del titolo che integrava il primitivo titolo abilitativo (la iniziale denuncia di inizio attività), era avvenuto sulla base della sanatoria ottenuta e dell’affidamento oramai ingenerato.
L’appello è fondato sulla base delle seguenti considerazioni.
L’articolo 10, comma 2 della legge regionale n. 23 del 21 ottobre 2004 prevede che <>.
Il provvedimento sanzionatorio assume pertanto valenza di sanatoria senza necessità di novare il titolo pregresso e dichiarato decaduto.
Sulla base della prima denuncia di inizio attività presentata (n.8176 del 3 luglio 2003 e variante n.7657 del 15 giugno 2005) in relazione al restauro e risanamento conservativo e successiva sospensione dei lavori del primo dicembre 2005 e decadenza dal titolo (7 febbraio 2006), la parte appellante aveva presentato richiesta di ammissione alla procedura sanante.
Rispetto a tale richiesta, presentata ai sensi della richiamata normativa regionale, con atto del 23 maggio 2006, il Comune così rispondeva: “A seguito della Vostra richiesta acquisita al prot. n. 5116 del 21 aprile 2006 con determinazione 23 maggio 2006 è stata determinata la sanzione pecuniaria da corrispondere al Comune ai sensi dell’art. 10, comma 2 L.R. 21.10.2004, n.23 a seguito della realizzazione delle opere abusive.
L’ammontare della sanzione è pari ad euro 521.088”.
Avverso tale determinazione, ritenendola errata in quanto eccessiva (naturalmente solo in ordine alla quantificazione), proponeva ricorso al Tar Emilia-Romagna l’attuale appellante, con ricorso n.836 del 2006 e la sanzione veniva dimezzata dalla ordinanza emessa in sede cautelare in data 16 novembre 2006; tale sanzione è stata incamerata definitivamente dal Comune, nonostante poi la sentenza n.4472 del 2008 del primo giudice abbia annullato la determina per incompetenza sulla determinazione del quantum, perché competente la Commissione Provinciale.
A differenza di quanto ha ritenuto il primo giudice, pertanto, non può ritenersi che la procedura di sanatoria fosse solo pendente, in quanto la stessa era da ritenersi oramai conclusa quanto alla risposta in senso positivo da parte dell’amministrazione.
La pendenza della fase di monetizzazione o quantificazione della somma dovuta doveva ritenersi logicamente successiva: in sintesi, l’amministrazione, dal tenore della risposta, si era espressa chiaramente nel senso di approvare la richiesta di sanatoria pronunciandosi sull’an; altra questione è poi la successiva fase di determinazione del quantum, che, come si è visto, ha portato ad ulteriori controversie e statuizioni giurisdizionali, quanto alla competenza, all’oggetto, al criterio da applicare.
In definitiva, il Comune di Minerbio ha accolto in sostanza la domanda di applicare la sanzione finalizzata alla attivazione della procedura di conservazione e ripristino dell’edificio, al di là della qualificazione come ristrutturazione consistente in demolizione e fedele ricostruzione o altro.
Inoltre, come deduce la parte appellante, il comportamento complessivo del Comune, tenuto nell’arco del tempo, è stato in buona sostanza nel senso di ritenere assodato l’assentimento favorevole sulla ammissione alla procedura sanante.
In particolare, tale comportamento è consistito nei seguenti passaggi:
a) il Comune ha irrogato la sanzione pecuniaria prevista dalla normativa regionale, sia pure in misura spropositata incorrendo nel vizio di incompetenza, secondo la sentenza del Tar Emilia-Romagna n.4472 del 2008, che ha stabilito la competenza della Commissione Provinciale; b) il Comune ha incamerato e mai restituito la sanzione liquidata, sia pure in misura ridotta di euro 260.544,00 autorizzata dal Tar in sede cautelare; c) il Comune ha preteso l’acquisizione del parere tecnico del Servizio Tecnico Bacino Reno ai fini del perfezionamento della procedura di sanatoria; d) ha chiesto alla competente Commissione Provinciale Valori Agricoli Medi la determinazione del valore venale dell’immobile ai fini dell’applicazione della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 10 comma 2 L.R. 21 ottobre 2004, n.23 pari al doppio dell’aumento del valore dell’immobile conseguente alla realizzazione delle opere; e) ha impugnato la conseguente delibera n.79 del 20 maggio 2009 con cui la predetta Commissione ha quantificato l’aumento di valore dell’immobile in euro 148.960,00 con conseguente determinazione della sanzione (per effetto del raddoppio di legge) in euro 297.920,00 anziché in euro 521.088,00 (determina n.186 dell’8 ottobre 2009); come si è detto, tale valutazione veniva contestata anche dalla parte attuale appellante, con altro ricorso.
Tali attività poste in essere dal Comune di Minerbio si pongono, quindi, in palese contraddizione con la successiva declaratoria di inammissibilità e rigetto della denuncia di inizio attività presentata in data 2 marzo 2011 (prot.n.3242), motivata sulla base del fatto che essa si innestava su titoli abilitativi non idonei: al contrario, la parte istante aveva oramai ottenuto un sostanziale assentimento da parte del Comune circa la richiesta di sanatoria o comunque aveva buona ragione per opinare in tal senso.
Il Collegio osserva che, ad abundantiam, la conferma che la controversia tra le parti, già da prima, si era concentrata sulla determinazione quantitativa della sanzione si rinviene anche dalle, pur successive nel tempo, due sentenze rese dal Tar Emilia-Romagna nell’anno 2014: con la prima (Tar Emilia-Romagna, sede di Bologna, in data 11 luglio 2014, sentenza n.753 del 2014), è stato accolto il ricorso proposto dalla appellante avverso la determinazione del valore venale dell’immobile operata dalla Commissione Provinciale Valori Agricoli Medi ai fini dell’applicazione della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 10, comma 2 della l.r. 23 del 2004, ritenendo spropositato il calcolo operato dalla Commissione, dovendosi escludere i locali interrati, pacificamente non realizzati, con conseguente consistente riduzione della sanzione irrogata; con la sentenza del Tar Emilia-Romagna sezione I, n.858 del 17 settembre 2014, pronunciandosi su ricorso del Comune di Minerbio proposto avverso la delibera della Commissione provinciale per i valori agricoli medi n.79/2009 (del 4 giugno 2009), il ricorso è stato accolto nel senso di dover tenere conto del “valore reale dell’immobile allo stato precedente”.
Sulla base delle precedenti considerazioni, va accolto l’appello e, in conseguente riforma dell’appellata sentenza, va accolto ai sensi di cui in motivazione l’originario ricorso.
La condanna alle spese del doppio grado di giudizio segue il principio della soccombenza; le spese sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma dell’appellata sentenza, respinge il ricorso originario.
Condanna il Comune di Minerbio al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio, liquidandole in complessivi euro quattromila in favore della parte appellante.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 4 dicembre 2014 con l'intervento dei magistrati:
Luciano Barra Caracciolo,Presidente
Sergio De Felice,Consigliere, Estensore
Claudio Contessa,Consigliere
Gabriella De Michele,Consigliere
Marco Buricelli,Consigliere
 
 
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
 
 
 
 
 
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 05/01/2015
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

Pubblicato in: Urbanistica » Giurisprudenza

Registrati

Registrati per accedere Gratuitamente ai contenuti riservati del portale (Massime e Commenti) e ricevere, via email, le novità in tema di Diritto delle Pubbliche Amministrazioni.

Contenuto bloccato! Poiché non avete dato il consenso alla cookie policy (nel banner a fondo pagina), questo contenuto è stato bloccato. Potete visualizzare i contenuti bloccati solo dando il consenso all'utilizzo di cookie di terze parti nel suddetto banner.