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Illegittima occupazione ed indennizzo - TAR Parma, sent. n.201 del 29.06.2015

Pubblico
Martedì, 14 Luglio, 2015 - 02:00

 

Tribunale Amministrativo Regionale per la Emilia Romagna, sezione staccata di Parma (Sezione Prima), sentenza n. 201 del 29 giugno 2015, sulla illegittima occupazione e sui criteri indennitari
 
 
N. 00201/2015 REG.PROV.COLL.
N. 00289/2014 REG.RIC.
 
REPUBBLICA ITALIANA
 
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Emilia Romagna
 
sezione staccata di Parma (Sezione Prima)
 
ha pronunciato la presente
 
SENTENZA
 
sul ricorso numero di registro generale 289 del 2014, proposto da: 
......i, rappresentate e difese dagli avv.ti Paolo Piva, Stefano Piva e Antonio Andreoli, con domicilio eletto presso il loro studio in Parma, viale Toschi, 4; 
contro
Comune di Parma, in persona del Sindaco in carica, rappresentato e difeso dagli avv.ti Laura Maria Dilda, Salvatore Caroppo e Francesca Priori, con domicilio eletto presso gli uffici dell’Avvocatura comunale in Parma, Strada Repubblica 1; 
per l'annullamento
del provvedimento di acquisizione al patrimonio comunale di aree ubicate a Parma in via Paradigna per la realizzazione della viabilità pubblica di raccordo tra la S.S. Asolana e la via Paradigna - DD prot. n. 2014-1474 del 19 agosto 2014.
 
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Parma;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore la dott.ssa Laura Marzano;
Uditi, nell'udienza pubblica del giorno 25 giugno 2015, i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue.
 
FATTO e DIRITTO
Con ricorso notificato il 14 ottobre 2014 e depositato il 28 ottobre successivo le ricorrenti hanno impugnato la determinazione dirigenziale DD-2014-1474 del 19 agosto 2014, notificata il 16 settembre 2014, con cui il Comune di Parma ha disposto l’acquisizione sanante di alcuni mappali, di loro proprietà, utilizzati in assenza di decreto di esproprio dall’amministrazione per la realizzazione della viabilità pubblica di raccordo tra la strada statale Asolana e la via Paradigna.
Con due motivi l’atto acquisitivo è stato censurato sia per non aver il Comune acquisito anche i due mappali (il 429 e il 439) che, pur non essendo interessati dall’opera sarebbero rimasti interclusi e per non aver, in subordine, considerato nel calcolo dell’indennizzo la diminuzione di valore di dette particelle, sia per non aver il Comune riconosciuto e liquidato la rivalutazione monetaria e gli interessi legali sulle somme dovute.
Il Comune intimato si è costituito in giudizio eccependo l’inammissibilità del ricorso e deducendone, comunque, l’infondatezza.
Invero il Comune obietta che l’art. 42 bis D.P.R. 327/2001 non consente l’acquisizione di aree non utilizzate per scopi di interesse pubblico, quali i mappali 429 e 439 che non sono stati interessati neanche da occupazione; in ogni caso fa presente che le particelle non sono intercluse avendo il Comune realizzato due accessi carrabili dalla via Versailles e che, sebbene questa sia temporaneamente chiusa, è comunque attraversata dai mezzi agricoli.
Quanto all’indennizzo il Comune rileva che il deprezzamento delle aree residue è stato computato ai sensi di legge e che, in ogni caso, gli accessori rivendicati dalla parte ricorrente non sono dovuti dovendosi la stima dei suoli effettuare al momento del trasferimento della proprietà sicchè mancano i presupposti per la maturazione di rivalutazione e interessi.
All’udienza pubblica del 25 giugno 2015, come verbalizzato, avendo il Collegio rilevato d’ufficio il possibile difetto di giurisdizione in ordine agli aspetti indennitari alla luce della sentenza della corte costituzionale n. 71/2015 e ritenendo di porre tale questione a fondamento della decisione, le parti sono state invitate a discutere sul punto in contraddittorio, ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a..
All’esito la causa è stata trattenuta in decisione.
Il ricorso è in parte infondato e in parte inammissibile per difetto di giurisdizione.
Deve premettersi che la parte ricorrente non contesta in alcun modo la legittimità formale e sostanziale dell’atto adottato, prestandovi dunque acquiescenza, se non nella parte in cui l’acquisizione non è stata estesa anche ad altre particelle catastali asseritamente intercluse.
Tale censura è infondata in punto di fatto avendo il Comune affermato e prodotto documentazione fotografica da cui risulta che sono stati realizzati varchi carrabili per accedere ai mappali 429 e 439 dalla strada pubblica via Versailles.
La circostanza e la relativa documentazione sono rimaste non contestate dalla parte ricorrente sicchè il primo profilo di censura è infondato in punto di fatto, prima ancora che di diritto essendo indubbio che, stando alla lettera dell’art. 42 bis T.U. espropriazione, è possibile per l’autorità disporre l’acquisizione al patrimonio indisponibile esclusivamente un bene immobile “utilizzato” per scopi di interesse pubblico.
Pertanto l’amministrazione giammai avrebbe potuto acquisire con il provvedimento di acquisizione sanante anche gli ulteriori mappali, mai utilizzati per scopi di interesse pubblico, pur restando salva la possibilità che le parti (pubblica e privata) si accordino, ove lo ritengano conveniente e utile, per una cessione negoziale delle suddette aree in modo del tutto indipendente e svincolato, tuttavia, dall’intervenuta acquisizione in via autoritativa delle aree limitrofe.
La seconda censura formulata in subordine con il primo motivo e quella contenuta nel secondo motivo, afferendo a questioni indennitarie, sono inammissibili in questa sede per difetto di giurisdizione.
In proposito il Collegio da atto dell’esistenza di orientamenti contrastanti in ordine all’individuazione del giudice competente a conoscere le controversie concernenti l’indennizzo previsto per l’ablazione disposta ai sensi dell’art. 42 bis del D.P.R. n. 327.
Invero, secondo l’orientamento più risalente, l’indennizzo in discorso, proprio in quanto tale, uscirebbe dalla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo di cui all’art. 133, comma 1, lett. f), c.p.a. per essere devoluto alla cognizione del giudice ordinario, ai sensi della lett. g) della norma citata (Cons. Stato, sez. IV, 19 febbraio 2013, n. 1004; id. 25 giugno 2013, n. 3455; id. 29 agosto 2013, n. 4318; id. 4 settembre 2013, n. 4445; T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, sez. I, 26 aprile 2013, n. 393; T.A.R. Sicilia, Catania, sez. II, 9 dicembre 2013, n. 3004).
Con un orientamento più recente, a partire da Cons. Stato, Sez. IV, 3 marzo 2014, n. 993, la giurisprudenza ha operato un netto revirement affermando che l’indennizzo in discorso costituirebbe un risarcimento del danno cagionato da fatto illecito della Pubblica Amministrazione, con la conseguenza che le relative controversie rientrerebbero a pieno titolo nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, trattandosi di liti intorno ad una pretesa qualificabile come risarcimento dei danni conseguenti ad un cattivo uso del potere espropriativo, al quale sopravvive l'esigenza dell'Amministrazione di continuare a trattenere il bene in considerazione della perdurante utilizzazione dello stesso nell'interesse pubblico.
In tale ottica, quello di cui all'art. 42 bis del d.P.R. n. 327 è stato ritenuto un “potere "rimediale", debitore dell’originario errore nell'esercizio pregresso del potere, che abbisogna, per legittimarsi e giustificarsi anche da punto di vista costituzionale, del previo ed integrale ristoro del pregiudizio inferto, ancor prima che della pur necessaria dimostrazione dell’interesse pubblico al perdurante utilizzo dell’immobile” (Cons. Stato, Sez. IV, 3 marzo 2014, n. 993, cit.).
Tale natura rimediale rispetto alla pregressa illegittimità si ripercuoterebbe sul modo in cui il (cosiddetto) indennizzo conseguente all’acquisizione sanante è disciplinato dal legislatore, essendo proiettato non al futuro in vista dell'ablazione del bene ma, al contrario, connesso all'illecito pregresso.
La mancanza di un preventivo titolo idoneo, secondo tale impostazione, priverebbe di giustificazione il sacrificio della posizione proprietaria del singolo sicché, in via eccezionale, l'equilibrio verrebbe ripristinato a posteriori garantendo il totale ed integrale ristoro del sacrificio, ivi compreso quello non patrimoniale derivante dalla autoritativa sottrazione della proprietà.
Questa funzione riparatoria dell’illecito assegnata a quello che, dunque, impropriamente sarebbe chiamato indennizzo nell’art. 42 bis del D.P.R. n. 327, determinerebbe la sua inclusione nella categoria del risarcimento, con conseguente devoluzione al giudice amministrativo delle controversie sulla sua quantificazione.
Il richiamato orientamento è stato, poi, largamente condiviso dalla giurisprudenza ritenendo sussistente, anche nella residuale materia indennitaria da acquisizione sanante, la giurisdizione amministrativa (T.A.R. Campania, Napoli, sez. V, 13 maggio 2014, n. 2632; Cons. Stato, sez. IV, 6 agosto 2014, n. 4203; id. 3 settembre 2014, n. 4490 e n. 4501; id. 1 dicembre 2014, n. 5912; id. 5 marzo 2015, n. 1114).
Senonchè è intervenuta la (attesa) sentenza n. 71 del 30 aprile 2015 con cui la Corte Costituzionale, sebbene non si sia occupata dei profili di giurisdizione, ha prospettato tuttavia un’opzione ermeneutica ben precisa dell’istituto dell’acquisizione sanante di cui all’art. 42 bis D.P.R. 327/2001, che afferma essere l’unica alla stregua della quale la norma che lo disciplina può ritenersi conforme a legge.
Il Collegio ritiene che l’opzione ermeneutica seguita dalla Consulta metta in crisi in modo insuperabile l’architettura giuridica innanzi richiamata, che qualifica l’indennizzo previsto dalla norma in rassegna come sostanziale risarcimento da atto illecito.
Devono, dunque, esaminarsi i passaggi salienti della decisione della Corte costituzionale.
La Corte muove da una considerazione preliminare, ossia che “Come l'analogo art. 43 del T.U. sulle espropriazioni, dichiarato incostituzionale per eccesso di delega con sentenza n. 293 del 2010 di questa Corte, l'art. 42-bis oggi censurato ha ad oggetto la disciplina dell'utilizzazione senza titolo, da parte della pubblica amministrazione, di un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità” (incipit del punto 2).
Ciò posto, in un passaggio successivo (punto 6.2.) la Corte traccia quella che definisce una “sommaria descrizione del contesto, anche giurisprudenziale, nel quale sono stati inseriti, dapprima l'art. 43, e poi l'art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni”.
Quanto alla prima delle norme la Corte rammenta che “Nel dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 43 del T.U. sulle espropriazioni per eccesso di delega, questa Corte (sentenza n. 293 del 2010) ha rilevato che l'intervento della pubblica amministrazione sulle procedure ablatorie, come disciplinato dalla norma da ultimo richiamata, eccedeva gli istituti della occupazione appropriativa ed usurpativa, così come delineati dalla giurisprudenza di legittimità, prevedendo un generalizzato potere di sanatoria, attribuito alla stessa amministrazione che aveva commesso l'illecito, addirittura a dispetto di un giudicato che avesse disposto il ristoro in forma specifica del diritto di proprietà violato” (punto 6.3.).
Ha ritenuto, dunque “opportuno che lo scrutinio della norma censurata nel presente giudizio di legittimità costituzionale sia preceduto da un suo raffronto con l'art. 43 del T.U. sulle espropriazioni, dovendosi, dapprima, stabilire se il nuovo meccanismo acquisitivo risulti disciplinato in modo difforme rispetto a quello previsto dal precedente art. 43…” (punto 6.4.).
Di seguito la Corte afferma: “L'art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni ha certamente reintrodotto la possibilità, per l'amministrazione che utilizza senza titolo un bene privato per scopi di interesse pubblico, di evitarne la restituzione al proprietario (e/o la riduzione in pristino stato), attraverso un atto di acquisizione coattiva al proprio patrimonio indisponibile. Tale atto sostituisce il regolare procedimento ablativo prefigurato dal T.U. sulle espropriazioni, e si pone, a sua volta, come una sorta di procedimento espropriativo semplificato, che assorbe in sé sia la dichiarazione di pubblica utilità, sia il decreto di esproprio, e quindi sintetizza uno actu lo svolgimento dell'intero procedimento, in presenza dei presupposti indicati dalla norma” (punto 6.5.).
Indi traccia le differenti caratteristiche del nuovo istituto rispetto a quello già dichiarato incostituzionale:
- l’acquisto della proprietà del bene da parte della P.A. avviene ex nunc;
- si impone un obbligo motivazionale “rafforzato” in ordine alle cause dell’indebita utilizzazione e, soprattutto, alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che giustificano l'emanazione dell'atto, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati, nonché in ordine alla assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione;
- nel computo dell'indennizzo deve rientrare non solo il danno patrimoniale, ma anche quello non patrimoniale, forfetariamente liquidato nella misura del 10 per cento del valore venale del bene: ristoro supplementare rispetto alla somma che sarebbe spettata nella vigenza della precedente disciplina;
- il passaggio del diritto di proprietà è sottoposto alla condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute, da effettuare entro 30 giorni dal provvedimento di acquisizione;
- la nuova disciplina si applica non solo quando manchi del tutto l'atto espropriativo, ma anche laddove sia stato annullato - o impugnato a tal fine, nel qual caso occorre il previo ritiro in autotutela da parte della medesima pubblica amministrazione - l'atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio, oppure la dichiarazione di pubblica utilità dell'opera oppure, ancora, il decreto di esproprio;
- non è stata più riproposta la cosiddetta acquisizione in via giudiziaria, precedentemente prevista dal comma 3 dell'art. 43, ed in virtù della quale l'acquisizione del bene in favore della pubblica amministrazione poteva realizzarsi anche per effetto dell'intervento di una pronuncia del giudice amministrativo, volta a paralizzare l'azione restitutoria proposta dal privato;
- non secondaria, nell'economia complessiva del nuovo istituto, è infine la previsione (non presente nel precedente art. 43) in base alla quale l'autorità che emana il provvedimento di acquisizione ne dà comunicazione, entro trenta giorni, alla Corte dei conti mediante trasmissione di copia integrale.
Conclude la Corte che si è, dunque, in presenza di un istituto diverso da quello disciplinato dall'art. 43 del T.U. sulle espropriazioni in quanto “l'adozione dell'atto acquisitivo, con effetti non retroattivi, è certamente espressione di un potere attribuito appositamente dalla norma impugnata alla stessa pubblica amministrazione. Con l'adozione di tale atto, quest'ultima riprende a muoversi nell'alveo della legalità amministrativa, esercitando una funzione amministrativa ritenuta meritevole di tutela privilegiata, in funzione degli scopi di pubblica utilità perseguiti, sebbene emersi successivamente alla consumazione di un illecito ai danni del privato cittadino” (punto 6.6.1.).
Secondo la Corte “la norma censurata delinea pur sempre una procedura espropriativa”, che “sebbene necessariamente “semplificata” nelle forme, si presenta “complessa” negli esiti, prevedendosi l'adozione di un provvedimento «specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l'emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l'assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione»”(punto 6.7.).
Per risultare conforme a Costituzione l'adozione dell'atto acquisitivo può essere consentita esclusivamente allorché costituisca l'extrema ratio per la soddisfazione di “attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico”, come recita lo stesso art. 42 bis del T.U. delle espropriazioni; dunque, prosegue la Corte, può essere consentita solo quando siano state escluse, all'esito di una effettiva comparazione con i contrapposti interessi privati, altre opzioni, compresa la cessione volontaria mediante atto di compravendita, e non sia ragionevolmente possibile la restituzione, totale o parziale, del bene, previa riduzione in pristino, al privato illecitamente inciso nel suo diritto di proprietà.
“Soltanto adottando questa prospettiva ermeneutica, l'attribuzione del potere ablatorio (in questa forma eccezionale) può essere ritenuta legittima, sulla scia della giurisprudenza costituzionale che impone alla legge ordinaria di indicare «elementi e criteri idonei a delimitare chiaramente la discrezionalità dell'Amministrazione» (sentenza n. 38 del 1966)” (punto 6.7.).
Le articolate e complesse considerazioni della Corte sfociano nell’inequivoca conclusione che l’istituto delineato dall’art. 42 bis T.U. espropriazione delinea “una procedura espropriativa ….semplificata nelle forme” ma “complessa negli esiti” e che, con il provvedimento che ne è espressione, l’amministrazione “riprende a muoversi nell'alveo della legalità amministrativa, esercitando una funzione amministrativa ritenuta meritevole di tutela privilegiata, in funzione degli scopi di pubblica utilità perseguiti, sebbene emersi successivamente alla consumazione di un illecito ai danni del privato cittadino”.
Osserva il Collegio che la ricostruzione dell’istituto operata dalla Corte, come espropriazione semplificata, espressione di una funzione amministrativa meritevole di tutela, mal si concilia con la opposta qualificazione dell’atto di acquisizione sanante come espressione di un potere meramente rimediale di un illecito che, per ciò solo, necessita del ristoro integrale a titolo risarcitorio.
D’altra parte la Corte non ha mancato di analizzare a fondo anche le caratteristiche dell’indennizzo disciplinato nel dettaglio dalla norma osservando che “In realtà, la norma attribuisce al privato proprietario il diritto ad ottenere il ristoro del danno patrimoniale nella misura pari al valore venale del bene (così come accade per l'espropriazione condotta nelle forme ordinarie), oltre ad una somma a titolo di danno non patrimoniale, quantificata in misura pari al 10 per cento del valore venale del bene. Si è perciò in presenza di un importo ulteriore, non previsto per l'espropriazione condotta nelle forme ordinarie, determinato direttamente dalla legge, in misura certa e prevedibile. E deve sottolinearsi che il privato, in deroga alle regole ordinarie, è in tal caso sollevato dall'onere della relativa prova. Quanto all'indennità dovuta per il periodo di occupazione illegittima antecedente al provvedimento di acquisizione, è vero che essa viene determinata in base ad un parametro riduttivo rispetto a quello cui è commisurato l'analogo indennizzo per la (legittima) occupazione temporanea dell'immobile, ma il terzo comma della norma impugnata contiene una clausola di salvaguardia, in base alla quale viene fatta salva la prova di una diversa entità del danno” (punto 6.6.2.).
Ritiene il Collegio che, alla luce delle lucide analisi del Giudice delle leggi, innanzi riportate solo nei tratti salienti per ovvie esigenze di sinteticità, non sia più percorribile l’opzione ermeneutica secondo cui “il semplice mutamento nominale (indennizzo in luogo di risarcimento)” fra l'art. 43, predecessore dell'art. 42 bis, “non può, di per sé solo, immutato il contesto normativo, deporre per uno stravolgimento dell'intera fattispecie” (Cons. Stato, n. 993/2014, cit., punto 3.7.), sicchè si tratterebbe di questioni risarcitorie senz’altro devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo.
Perseverando in una impostazione di questo tipo si finirebbe col dare della norma dettata dall’art. 42 bis T.U. espropriazione una lettura totalmente contrastante con le conclusioni cui è giunta la Consulta, dovendosi certamente escludere la possibilità di sollevare nuovamente le stesse censure di incostituzionalità della norma in discorso per violazione degli stessi parametri costituzionali, in quanto censure già esaminate dalla Corte.
Accertato, dunque, che il ristoro la cui entità è contestata dalla parte ricorrente, costituisce indennizzo da atto lecito (T.A.R. Toscana, Sez. I, 11 giugno 2015, n. 890) il giudice amministrativo deve necessariamente declinare la giurisdizione in favore del giudice ordinario, dinanzi al quale la causa, ove persista l’interesse alla decisione, andrà riassunta nei modi, nei termini e per gli effetti di cui all’art. 11, comma 2, c.p.a..
In particolare la giurisdizione in subjecta materia si ritiene appartenga alla Corte di appello nel cui distretto si trova il bene oggetto di espropriazione ai sensi dell’art. 29, comma 2, D.Lgs. 1 settembre 2011, n.150.
Detta competenza funzionale in unico grado, prevista originariamente dall'art. 19 L. n. 865 del 1971 con riferimento alle sole ipotesi di opposizione alla stima, deve infatti applicarsi in tutti i casi di determinazione giudiziale dell'indennità di esproprio e, in particolare, in tutti i casi in cui nel descritto ambito siano discusse questioni relative al quantum dell'indennità di espropriazione (cfr.
Cass. Civ. sez. I, 18 giugno 2014, n. 13905).
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
Deve, inoltre, rammentarsi alla parte ricorrente l’obbligo di integrare il versamento del contributo unificato nella misura di legge, nei tempi e nei modi indicati nella nota del Dirigente in data 5 giugno 2015, pena l’applicazione delle sanzioni ivi indicate.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia Romagna, Sezione Distaccata di Parma, definitivamente decidendo sul ricorso in epigrafe, lo respinge in parte dichiarando il difetto di giurisdizione quanto alla restante parte, ai sensi e per gli effetti di cui in motivazione.
Condanna la parte ricorrente alle spese del giudizio che liquida in € 2.000,00 (duemila) oltre oneri di legge rammentando l’obbligo a suo carico, di integrare il versamento del contributo unificato come da motivazione.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Parma nella camera di consiglio del giorno 25 giugno 2015 con l'intervento dei magistrati:
Angela Radesi,Presidente
Laura Marzano,Primo Referendario, Estensore
Marco Poppi,Primo Referendario
 
 
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
 
 
 
 
 
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 29/06/2015
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

 

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